È l’edizione dei grandi eventi questa quarantacinquesima di Umbria Jazz, sempre più aperta a connotazioni stilistiche frutto di mescolanze di generi. E così in un corso Vannucci transennato da tavolini e turisti, si fanno strada i ragazzi del Berklee College of Music di Boston sul palco allestito sotto la fontana Maggiore, i buskers e perfino due ragazzi che sfidando la calura danno vita a una milonga, con la consueta cornice delle performance a piazza IV novembre e ai Giardini Carducci dove il cartellone prevede nelle dieci giornate di festival (13-22 luglio) e centoquaranta concerti.

Anno di celebrazioni e scelta quasi obbligata per l’evento inaugurale: chi meglio di Quincy Jones – 85 anni festeggiati proprio nel 2018, può farsi rappresentante della comunicanza di stili?
Una coerenza sinonimo di creatività e una carriera infinita così da giustificare le oltre tre ore di concerto nell’arena San Giuliano, una filosofia pienamente accolta dagli ottanta orchestrali della Umbria Jazz Orchestra diretta da John Clayton con il supporto del bassista Nathan East e dal batterista Harvey Mason, schierati davanti a Jones che assiste all’omaggio su un divanetto a bordo palco. L’introduzione è tutta orchestrale ed e dedicata a QJ autore di decine di colonne sonore e serie tv con un compendio inevitabilmente parziale dei suoi titoli più noti: da Radici passando ad Ironside, Sanford and Son e Soulbossanova (Austin Powers) fino a una maestosa rilettura per archi di The Difference, il tema da Il colore viola di Spielberg.

Poi arrivano gli ospiti, artisti con i quali Quincy è connesso con produzioni o collaborazioni, come nel caso dei Take 6 il sestetto vocale da Huntsville impegnato in un set dove spiccava una corposa versione di Lovely Days di Bill Withers.
Nella calda notte perugina si affollano storie e aneddoti. «Ero a Parigi – ricorda QJ – con Sarah Vaughan quando mi raggiunse Errol Garner (grande autore di classici della canzone americana, ndr) che mi mise in tasca lo spartito di Misty dicendomi: questa la devi proprio fare».

E proprio sulle note di questo gioiello senza tempo si arrampica una suadente Dee Dee Bridgewater in un aderente mise argentata, pronta ad accoccolarsi al fianco del maestro durante l’esibizione in un omaggio a due regine, Sassy appunto e subito dopo a Ella Fitzgerald della quale con un travolgente scat introduce Honeysuckle Rose.
Veloci cambi palco e poi tocca a Noa e Gil Dor con un’incursione in alcune rielaborazioni da Bach ispirate alla compositrice francese di fine ottocento Nadia Boulangier, Ivan Lins a ricordarci la passione di Quincy per la bossanova.

E poi Patti Austin, una delle muse di QJ, il pianista Alfredo Rodriguez e anche Paolo Fresu impegnato in una versione di The Ship, uno dei brani con cui Miles Davis si esibì a Montreux insieme a Quincy Jones nel 1991.
La lunga coda finale è un susseguirsi di duetti, spicca una composizione di Lins, Love Dance con l’autore affiancato da Patti Austin e da Fresu. E a far scattare il pubblico in piedi l’inevitabile citazione da Thriller con Wanna Be Startin’ Somethin’ ripreso dai Take Six. È passata da mezzora la mezzanotte e le luci si spengono sulle note di Let the Good Times Roll, classico di Ray Charles con tutti gli artisti sul palco e Quincy a dirigere l’orchestra.