I dati sono impietosi: 14 mila posti di lavoro persi dal 2008, un prodotto interno lordo regionale il cui calo nel periodo 2007-2015 è stato secondo solo a quello del Molise. E una serie di crisi industriali che si allunga ogni giorno di più. L’Umbria che era il vertice basso del triangolo rosso che la univa a Emilia e Toscana, quella regione piccola, pacioccona e operosa che era riuscita nel miracolo di saldare un discreto benessere economico a una dimensione di vita a misura d’uomo, appare oggi un’immagine sempre più sfocata. Sono stati morsi redditi e occupazione, cancellate sicurezze, generate paure. Rispetto al 2008 non sono solo calati gli occupati, ma ci sono oltre ventimila part time in più, e su cinque contratti che vengono firmati oggi, solo uno è a tempo indeterminato. Tutto questo, calato nel calderone della vulgata anticasta che individua nel grumo indistinto della «politica» la causa di ogni male, genera un malcontento che a volte viene indirizzato verso il bersaglio sbagliato. Nel dibattito regionale, come peraltro in quello nazionale, gli imprenditori restano regolarmente al riparo dalla tempesta; mai colpiti dagli strali degli elettori infuriati, mai tirati in ballo, se non, a volte, dai sindacati, come attori protagonisti di questa crisi.

NEL CALEIDOSCOPIO della crisi in salsa umbra c’è un vastissimo campionario di esempi di come comportamenti e scelte di proprietari di imprese e manager vari hanno generato effetti a catena che si sono ripercossi sulle vite di migliaia di persone, peggiorandole. C’è l’impresa in crisi comprata a un euro con promesse altisonanti ma mai risanata; c’è il giornale di proprietà di due ex presidenti della Confindustria regionale e dell’attuale presidente della potente Fondazione cassa di risparmio del capoluogo che viene venduto per pochi euro e in fretta e furia a un personaggio mai stato editore prima che lo chiude dopo cinque mesi. C’è la multinazionale con fatturato da capogiro che proclama centinaia di esuberi seguendo logiche che hanno a che fare più con la finanza che con la produzione; e c’è l’imprenditore che finisce in manette per frode fiscale, i cui lavoratori vengono lasciati alla deriva. Ce n’è per tutti i gusti insomma, in una regione piccola sì, ma che fornisce esempi illuminanti per capire come funzionano certe cose anche ben al di là dei suoi confini. Quando nel dicembre 2016 al ministero dello sviluppo economico arriva da parte dei Greco, famiglia calabrese, la proposta di acquisto della Novelli, azienda alimentare proprietaria tra l’altro dei marchi Ovito e Interpan, più di qualcuno storce il naso. In ballo ci sono 500 dipendenti. I sindacati alla fine dicono sì solo perché hanno ricevuto rassicurazioni: non ci saranno licenziamenti e l’azienda sarà risanata. Si procede così alla cessione forzata dell’azienda in crisi, visto che alcuni dei vecchi proprietari non erano d’accordo con la vendita. I Greco acquistano per un euro. Tre mesi dopo presentano un piano di risanamento che prevede tagli per poco meno di cinque milioni di euro e 68 esuberi. Nel frattempo, alcuni degli asset di pregio della Novelli, passano dalla società acquirente, la Alimentitaliani srl, a società di proprietà dei Greco. E non finisce qui. La Alimentitaliani è attualmente in regime di concordato, cioè si sta cercando un piano per soddisfare i creditori.

AL POLO SIDERURGICO di Spoleto sono 200 i lavoratori in attesa di come andrà a finire. Sono sotto ammortizzatori sociali dal 13 giugno 2014, il giorno in cui all’alba viene notificato al patron, Gianfranco Castiglioni, un provvedimento di arresti domiciliari. All’imprenditore viene contestata una frode fiscale di 63 milioni e vengono posti i sigilli, tra le altre cose, a una villa di 36 stanze, a terreni, appartamenti, a una Ferrari F40, una Testarossa e una Lamborghini Diablo. Nel momento in cui le aziende vengono messe in amministrazione straordinaria, il reparto alluminio del polo siderurgico spoletino ha commesse che gli consentirebbero di andare avanti per un anno. Dopo tre anni, nell’ottobre scorso, Castiglioni viene rinviato a giudizio. E nel frattempo la frode fiscale è lievitata, secondo l’accusa, a 1,2 miliardi. E il polo siderurgico? I bandi per la cessione delle due aziende che lo costituivano sono andati deserti, e per i lavoratori si avvicina anche lo spettro della fine degli ammortizzatori sociali.

LA VICENDA del Giornale dell’Umbria è più ridimensionata rispetto ai numeri: trenta dipendenti e svariate decine di collaboratori. Ma è cruciale poiché in essa è coinvolto il gotha dell’imprenditoria umbra. Il quotidiano, che ha terminato le pubblicazioni nel gennaio 2016 , era di proprietà della famiglia Colaiacovo, il cui «capo», Carlo, è stato presidente della Confindustria regionale così come Ernesto Cesaretti, anche lui nella compagine proprietaria, che ha lasciato la poltrona di numero uno degli imprenditori umbri solo poche settimane fa. L’altro socio “di lusso” della società che editava il quotidiano era Giampiero Bianconi, oggi presidente della Fondazione cassa di risparmio di Perugia. Bene, il quotidiano, dopo che era stato offerto ai lavoratori in cambio dei tfr maturati (per un valore di circa 800 mila euro), viene venduto per 50 mila euro nel caldo torrido dell’estate 2015 a una società capitanata da Giuseppe Incarnato, personaggio già coinvolto nel crac dell’Idi (Istituto dermopatico dell’Immacolata) che non aveva mai avuto a che fare col settore dell’editoria. A fine gennaio 2016, vengono chiuse le pubblicazioni dopo il licenziamento in massa di giornalisti e poligrafici. A maggio il tribunale di Perugia decreta il fallimento della società.

DAL LOCALE AL GLOBALE: Nestlé, proprietaria dello storico marchio della Perugina, l’azienda che produce i Baci famosi in tutto il mondo, annuncia il 2 marzo 2016 un piano di investimenti di 60 milioni in tre anni per lo stabilimento umbro. Dopo un anno, l’azienda comunica ai sindacati 364 esuberi su 850 occupati. Che è successo nel frattempo? Il sito di Perugia è in crisi? Non proprio. È successo che Third Point, un fondo americano, ha investito 40 milioni di dollari per acquisire quote azionarie di Nestlé e spinge il colosso svizzero verso una maggiore redditività. Soldi per fare soldi, insomma. Più che la produzione qui c’entra la finanza. L’amministratore delegato di Nestlé risponde facendo intendere che la multinazionale investirà d’ora in poi su settori giudicati a più alto margine di redditività: alimenti salutistici, caffè, acque minerali e prodotti per l’infanzia. E i lavoratori di Perugia? Appesi ai 364 esuberi: il prossimo incontro tra azienda, sindacati e governo si terrà a gennaio.

POI C’È LA MADRE di tutte le crisi. I tremila dipendenti della ex Merloni, azienda siderurgica a cavallo tra Umbria e Marche, sono sotto ammortizzatori sociali dal 2008. Nel frattempo sono stati investiti nell’area 81 milioni di soldi pubblici per tentare di attirare investimenti in grado di assorbire l’emorragia di posti di lavoro. Il risultato è che si sono fatte avanti aziende che hanno promesso – udite, udite – 23 posti di lavoro.