«O mio cuore dal nascere in due scisso/ quante pene durai per uno farne!/ Quante rose a nascondere un abisso!»
Questa terzina di Umberto Saba (1883-1957) allude ad una lacerazione storica ed esistenziale che la forma classica della poesia può nominare e distanziare nella contraddittoria esperienza della felicità e della nevrosi, infine nella pratica di una bellezza che tuttavia occulta «l’abisso» personale e sociale.

A QUESTE E AD ALTRE dimensioni della poesia (e della prosa) del grande poeta triestino, del quale quest’anno ricorre il sessantesimo della morte, è dedicata l’ampia e analitica monografia di Stefano Carrai, docente di Letteratura italiana all’Università di Siena (Saba, Salerno Editrice, pp. 294, euro 18). Si tratta di un lavoro di scavo nella biografia, nella formazione culturale, nella dimensione religiosa, nel contesto storico, fondamentali per comprendere la trama di una poesia che si vuole piana e cantabile ma che in realtà costruisce questa «cantabilità» con una sapienza letteraria studiatissima che «salta», per dir così, le avanguardie storiche novecentesche, per congiungersi direttamente alla grande poesia dell’Ottocento, da Henrich Heine a Goethe e Leopardi (senza dimenticare il Settecento di Giuseppe Parini).
«Amai trite parole che non uno/ osava. M’incantò la rima fiore/ amore,/ la più antica difficile del mondo./ Amai la verità che giace al fondo».

QUESTI VERSI dalla poesia Amai, che è anche, scrive Carrai, una «dichiarazione di poetica», ci spiegano perché Saba fu tenuto ai margini della linea dominante della poesia novecentesca, fin da quando nel 1911 inviò alla rivista fiorentina la «Voce» un articolo intitolato Quello che resta da fare ai poeti, sostenendo l’«onestà» di Manzoni, capace di dire la verità, contro la «disonestà letteraria» di D’Annunzio e la rivista rifiutò l’articolo che fu pubblicato postumo.
Carrai inizia la sua trattazione con una acuta citazione di Claudio Magris sull’identità: «trasformare l’incertezza della propria identità in un viaggio alla ricerca della medesima e cioè nell’identità più vera». Questa «incertezza» nasce in Saba non solo da motivi biografici (la doppia identità ebraico-cattolica dei genitori) ma anche dal peculiare contesto storico culturale di Trieste, città di frontiera per antonomasia, dove «l’italo e lo slavo» hanno convissuto insieme ai tedeschi (ricordiamo che la città fino alla prima guerra mondiale faceva parte dell’impero austroungarico), a greci e levantini e ad una consistente comunità ebraica. Tutto questo, ricorda Carrai, «determinava una sorta di microclima estremamente favorevole alla letteratura» (ricordiamo solo Svevo e Joyce, che insegnò inglese a Trieste per qualche anno).

NELLA SUA ATTENTA ricognizione Stefano Carrai ricorda alcuni passaggi importanti nella vicenda biografica e intellettuale di Saba. La lettura nel 1912 del saggio di Otto Weininger Sesso e carattere, che accentuò la sua misoginia e il suo rifiuto della religione ebraica (legata alla autoritaria figura della madre che a tre anni lo tolse con violenza dalle cure amorevoli dell’amata balia Peppa); la reazione infuriata nei confronti di quei critici che lo consideravano «un epigono di Gozzano e dei crepuscolari» (sarà Giacomo Debenedetti tra i primi a capire la novità della poesia sabiana); l’inizio, nel 1929, di una terapia psicoanalitica con il dottor Edoardo Weiss, già allievo e Vienna e corrispondente di Sigmund Freud, per far fronte alla malattia nervosa che periodicamente lo perseguitava.

SABA fu tra i pochi in Italia a comprendere le istanze liberatrici della psicoanalisi. Su questo punto Carrai riporta una bella lettera del poeta triestino a Vittorio Sereni che ci fa capire quanto sia stata importante per lui l’esperienza psicoanalitica: «In realtà, più che «guarire» personalmente, ho capito molte cose dell’anima umana, che prima m’erano non solo oscure, ma addirittura insospettate». E poi le Leggi razziali del 1938 che lo coinvolsero in prima persona in quanto figlio di una madre ebrea e che lo portarono anche a scrivere una lettera al Duce, «servile» e «mortificante» scrive Carrai, in cui rivendicava la sua «italianità» e chiedeva di non essere considerato di «razza ebraica». Fino agli anni della Liberazione e del dopoguerra, quando Saba simpatizzava per i comunisti ricordando però sempre loro che una vera liberazione dell’uomo deve considerare il vissuto personale di ognuno e i concreti rapporti tra gli individui.

Come scrisse Franco Fortini nel capitolo dedicato a Saba nei Poeti del Novecento del 1977, «crediamo… che un senso di questa poesia sia… quello di rivelare (e compiangere) una radicale infermità… una scissione dolorosa del soggetto… Nelle poesie di Saba la realtà urbana e civica non è soltanto una rete di evocazioni: è una difesa. Come per nessun alto poeta del nostro tempo, la tribù umana esiste per lui e occupa tutto intero l’orizzonte».