Il corteo si snoda lentamente tra le strette budella urbane. Dieci, cento, mille pugni vengono alzati in segno di sfida contro la polizia posizionata con caschi e manganelli alla fine della via. Il fumo dei candelotti lanciati contro i manifestanti in pieno centro a Padova, è un’onda sonora che si propaga tra i mille rivoli della memoria e riprende forma dopo oltre 40 anni nelle pagine di un noir.

È tra rabbia e malinconia che Umberto Montin, giornalista ed ex liceale nel ‘77 tra Padova e provincia, ha scritto «A muso duro», Robin edizioni. Racconta di un’inchiesta informale sul suicidio di Alice, leader del Comitato Interistituti della Bassa, figlia di industriali fascisti ed amata da tutti, su cui un suo ex compagno, trasformatosi nel frattempo in un funzionario della questura di Como sempre alle prese con mafiosi trapiantati al nord, inizia ad indagare dopo tanti anni dai fatti.

Quella morte per lo sbirro Martino Ribaud è pungente come il freddo siberiano. Il poliziotto con l’eskimo non è un investigatore cinico e pessimista, alla Hammet per intenderci, ma malinconico e progressista, soprattutto ancora innamorato di quel corpo violato nella caduta da un terzo piano del condominio all’Arcella dove Alice viveva. Lavorare sul tempo non è semplice, tutt’altro, ma Ribaud quel tempo sa scalarlo come fosse roccia nuda, con energia e disperazione. Complice un infortunio sul lavoro, una spalla trapassata da un proiettile dei fratelli ‘Ndranghetisti Traiano, Ribaud ritorna a casa degli anziani genitori e dopo aver cercato nel baule dei ricordi avvia una indagine privata mai autorizzata. Il protagonista surfa tra l’amore passato per Alice, quello presente per la docente parigina Sissa e Nina, una giovane collega che lo supporta nelle indagini. Il ritmo del racconto è incalzante, cinquecento pagine di assemblaggi postumi, suoni antichi di slogan e cortei, ma anche esistenze perdute, colpi di scena e adrenalina. La struttura del noir è ottima, il nesso tra i fatti e i ricordi è impietoso.

L’interrogativo sulla identità dell’assassino, perché è chiaro fin dalle prime pagine che Alice non si è suicidata come le frettolose indagini del tempo volevano far credere, coincide con una altra domanda: che ne è stato di tutti coloro che sognavano la rivoluzione?

Ribaud tra Padova, Parigi,Como e Ferrara va a stanare Giorgia, Sara, Sten, Bedetti detto Lenin, Turigliani, Juri e altri ancora con i quali condivideva riunioni, cortei ed assemblee, occupazioni, sogni e imprecazioni. Pedinando la realtà li trova cambiati nei volti e nelle emozioni. Di quella militanza liceale contro l’aumento del prezzo dei trasporti o contro il caro libri, vissuta tra le strade di Padova e Este, in molti dei suoi protagonisti non è rimasto che un vago ricordo insieme ad una macchia che ammorba l’aria della memoria. Ne emerge così una sorta di tassonomia delle derive esistenziali di chi un tempo si era votato alla rivoluzione ed oggi cerca soldi e potere oppure si abbandona alle droghe oppure ancora al lavoro (che poi talvolta è una altra droga). In un tempo che oscilla tra passato e presente il poliziotto per arrivare alla verità dovrà sbrogliare una intricata matassa fatta di omertà e amnesie, immersa in una fitta nebbia padana talmente densa ( l’acqua e anice di Conte per intenderci) che accompagna il noir dalla prima all’ultima pagina.

Chi ha ucciso Alice e perché? Forse gli ex compagni sorpresi dalla vittima a fare rapine? Potrebbe essere, infatti Ribaud vi lavora, ma non è l’unica pista. Lo aiuta a distanza Nina, la giovane collega questurina rimasta a Como e Libero un poliziotto amico ritrovato in questura a Padova, che accompagnano le sue indagini sul campo con ricerche di archivio su fatti, nomi e persone. Montin ci descrive una rete di osservazioni intime che si intrecciano con i rilievi penali in un crescendo martellante. L’indagine tiene col fiato sospeso, il ritmo è forte, il finale imprevedibile.

Umberto Montin è al suo primo libro, mette a frutto le sue conoscenza maturate in anni di giudiziaria nelle diverse redazioni dove ha lavorato. Ha lo sguardo sghembo di chi ha attraversato tante e diverse stagioni ma non dimentica i suoi valori. Certo la scelta di una professione, quella del questurino, per il suo protagonista è distopica. Ma ci ricorda che in fondo nella vita nessuno può prevedere il futuro, tantomeno scordare il passato. A meno che il passato non sia il presente da cui fuggiamo.