I due dispositivi che spiccano al centro della mostra allestita alla galleria Bianconi di Milano (visibile fino al 12 marzo, a cura di Lorenzo Madaro), il Fantavisore (1965) e il Rotor (1967), mettono subito in evidenza come la ricerca artistica di Umberto Bignardi sia stata assolutamente originale nel panorama dell’arte italiana degli anni ’60, grazie alla creazione di dispositivi grafico-cinetici che rimandano all’epoca del pre-cinema.

Rotor e Fantavisore
Il Fantavisore è costituito da un pannello semitrasparente su cui sono riportate una serie di disegni che si materializzano in sequenza illuminati a turno da lampadine, in modo che sia la luce a dare movimento (e rilievo) alle immagini. Il Rotor, invece, è un dispositivo esposto per la prima volta nel 1967 nella celebre mostra «Fuoco, Immagine, Acqua, Terra», costituito da un cilindro rotante con superfici bianche alternate a strisce verticali specchianti, su cui vengono proiettate slide e immagini del film Motion/Vision (girato e assemblato con l’amico filmmaker Alfredo Leonardi, uno dei fondatori della Cooperativa del Cinema Indipendente). La macchina ha la funzione di assorbire o rifrangere le immagini nell’ambiente circostante, esempio di installazione immersiva fortemente onirica, in alcuni allestimenti amplificata anche dal sonoro.
Sia il Fantavisore che il Rotor contengono figure originate da studi sulle tavole cronofotografiche di Muybridge che Bignardi ha tradotto anche in opere su carta. Tre di queste sono in mostra a Milano, insieme a una tela di grande dimensioni, una serie di piccoli disegni su carta millimetrata (inediti) dello stesso anno del «Fantavisore» e due straordinari vetri dipinti sospesi che proiettano l’immagine sulla parete; altri due dispositivi cinetici, questi ultimi, basati sulla visione luminosa e sovrapposta.

Le tele
Per comprendere il variegato rapporto che Bignardi ha intrattenuto con le immagini in movimento, bisogna comunque partire dalle sue tele. Più che i collage di Bignardi, che pure sono influenzati dalla pubblicità e dall’immaginario neodada e pop, sono opere come Tutti i modelli del prossimo anno (1962), dove i 36 riquadri che la compongono non sono altro che piccoli schermi cinematografici dagli angoli arrotondati, storyboard tra pittura, grafica, pubblicità e moda suscettibile di essere sviluppato in un possibile film. Oppure le tre tele della serie Clairol (una delle quali nella collezione della G.N.A.M. di Roma) che evidenziano l’interesse dell’artista nei confronti del linguaggio filmico, l’esigenza di ragionare sulla logica della sequenza, frantumando in decine di strisce il volto di una donna e suggerendo la scansione dei fotogrammi secondo una successione orizzontale.

Il prismobile
Anticipazione di un dispositivo che Bignardi avrebbe messo a punto l’anno successivo, nel 1964, il Prismobile. In questo caso, mediante la modificazione di un sistema elettromeccanico utilizzato per variare i cartelloni pubblicitari, Bignardi ottiene un effetto ancor più cinetico, proponendo all’osservatore immagini di corpi femminili che – anche dal punto di vista luministico – mutano davanti ai suoi occhi.

L’industria
Ma sono molti altre le macchine produttrici di visioni, dai nomi affascinanti, che spingono l’artista gradualmente verso il campo dell’industria e della comunicazione (Olivetti prima, IBM poi), abbandonando così nei primi anni ’70 il mondo dell’arte: Implicor, Trilemma, Pentarama. Il più famoso resta l’Implicor, sistema di multiproiezione di diapositive su pannelli con superficie a vetro/specchio atti a nascondere l’apparecchio lasciando affiorare dal buio immagini luminose e cromaticamente definite, composizioni grafiche e fotografiche accompagnate anche dal sonoro. Questo complesso apparato di comunicazione audiovisiva programmato mediante computer – esposto anche nella mitica mostra sul design italiano New Domestic Landscape del MoMA nel 1972 –, assumeva di volta in volta contenuti e, appunto, implicazioni diverse, abitato dagli spettatori che vi transitavano.

Il Trilemma (composto da 3 schermi) o il Pentarama (da 5 schermi), allestiti tra il 1972 e il 1973, combinavano insieme diapositive, proiezioni filmiche e perfino immagini televisive in bianco e nero, prodotte da microproiettori dalla Dassault, azienda francese all’epoca davvero all’avanguardia: il risultato era un assemblage multimediale, ennesimo e brillante tentativo di expanded cinema inteso almeno nelle due accezioni (su tre) teorizzate da Youngblood: sconfinamento dell’immagine dalla rigida cornice dello schermo, nonché ampliamento dell’interfaccia cinema-video-computer.

L’effimero
Di tutto questo lavoro non rimane traccia fisica, poiché si trattava di dispositivi scenografici, schermi di polivisione destinati ad essere allestiti, smontati e distrutti dopo il loro utilizzo. Ma Bignardi non si disperò all’epoca, né si dispera oggi più di tanto della loro perdita, dal momento che la loro natura era strutturalmente effimera, anche se è un vero peccato doversi accontentare dei pochi materiali sopravvissuti, ovvero della documentazione fotografica e delle centinaia di diapositive che componevano questi spettacolari e innovativi «teatri audiovisivi», attraverso cui, tuttavia, possiamo ancora riscrivere una storia dell’arte multimediale in Italia.

Il teatro
C’è un altro territorio di sperimentazione con cui Bignardi si misura negli anni ’60, quello del teatro, intervenendo anche qui con soluzioni scenografiche e scenotecniche che implicano l’uso di immagini in movimento. Si tratta di esperimenti che anticipano ciò che poi avverrà sistematicamente in Italia negli anni ’80, quando il medium video sarà utilizzato sulla scena teatrale, non come puro elemento scenografico, ma come dispositivo drammaturgico.
Lo stesso anno del Rotor con l’aiuto di due filmmaker sperimentali anch’essi vicini alla CCI, Giorgio Turi e Roberto Capanna, Bignardi prepara l’inserto filmato per lo spettacolo Illuminazione messo in scena da Mario Ricci su testo di Balestrini.

L’allestimento – come ricorda l’artista – era composto da «due file di prismi ruotanti sfalsati attraverso i quali si muovevano gli attori, ma questi oggetti solidi e i corpi stessi degli attori erano percepibili soltanto perché investiti dalle immagini proiettate di due film sincronizzati e dalle diapositive proiettate da un posto in platea». Ritorna quindi la visione parzialmente stroboscopica del movimento e del gesto, secondo gli stilemi del pre-cinema: da un lato il dispositivo ricorda il Prismobile; dall’altro, per la presenza di alcune facce specchiate e per le rifrazioni delle immagini da esse create in platea, si nota un’affinità con il Rotor. Ma lo stesso artista suggerisce un modello, ovvero una delle macchine del teatro greco, il periaktos, dotata di un prisma triangolare ligneo montato su un perno centrale che consentiva di ruotare le tre facce, su cui – si ipotizza – vi erano dipinte le scene che si riferivano ai tre generi teatrali (tragedia, commedia e dramma satiresco).

20 anni dopo
L’allontanamento di Bignardi dal mondo delle arti visive – cui ritornerà dopo oltre un ventennio, storicizzando un discorso che in realtà non si era mai realmente interrotto, ma aveva solo mutato contesto – ci fa capire quanto all’epoca il sistema dell’arte non era abbastanza maturo (ma lo è forse oggi?) per accettare liberi sperimentatori che non si ponevano troppe domande su ciò che era o meno lecito e conveniente creare per il circuito o per il mercato artistico.

Del resto se una figura come quella di Pascali era passato dal mondo dell’advertising a quello dell’arte, Bignardi aveva invece fatto un percorso inverso, mettendo a disposizione dai primi anni ’70 tutta la sua creatività per il lancio di prodotti e servizi o per l’organizzazione di convention ed eventi nel campo dell’informatica.

Così come l’universo pubblicitario pascaliano è tornato in auge – ma solo dopo essere stato a lungo nascosto o rimosso, per paura che poteva inficiare la produzione del Pascali artista – ci auguriamo avvenga altrettanto con il Bignardi autore di sistemi visuali di comunicazione.