La foto di Moreno Locatelli che campeggia nella pagina è firmata da Mario Boccia, le sue fotografie accompagnano da anni i lettori del manifesto e molti dei suoi scatti si trovano anche nel documentario Morte di un pacifista. Sua «La ragazza che corre» da Sarajevo, foto che è stata appena celebrata, sue le tante immagini dei palazzi devastati, dei ponti e dei volti, una visione umanistica che ci avvicina il più possibile al soggetto. Boccia era con Locatelli, ne ha scritto ieri un bellissimo ricordo (il manifesto, 3 ottobre), tutto quello che aveva da dire come testimone lo ha detto subito a caldo «a costo di essere accusato di avere chissà quale doppio fine, semplicemente perché dicevamo che questi ragazzi si erano andati a mettere in una situazione troppo pericolosa e Moreno che era totalmente d’accordo con noi per cercare di evitarlo alla fine va a morire con una precisa volontà: se si fa male qualcuno, diceva, lo porto via sulle mie spalle (contro la regola che se qualcuno cade non ci si deve fermare a soccorrerlo perché facile bersaglio dei cecchini). Vedeva questa cosa pericolosissima che andavano a fare, un’azione di pacifisti, recitare una preghiera e poggiare dei fiori dove era caduta la prima vittima dell’assedio di Sarajevo in mezzo al ponte senza riparo, come una sua sconfitta personale». La sua permanenza nella zona è stata di circa dieci anni, prima del conflitto: «Già il 28 giugno del ’91 ero in Slovenia, nella data dell’indipendenza dalla federazione jugoslava che costò almeno un centinaio di morti e sono rimasto paradossalmente fino alla data delle Torri gemelle passando per Croazia, Bosnia, Serbia, Kosovo e infine Macedonia perché stavo seguendo il tentativo di movimento separatista armato albanese, da luglio a settembre 2001. L’11 settembre i giornalisti di tutto il mondo che si trovavano in Macedonia se ne vanno e subito dopo si firma l’accordo di pace. Gli stessi nazionalisti macedoni che fino a quel momento lanciavano sassi e molotov contro l’ambasciata americana sono entrati nella Nato e il primo contingente in Iraq è stato quello macedone». La sua è una visione particolare, riconoscibilissimo il suo stile: «Quello che vorrei fare come fotografo, dice, è portare l’attenzione sulle persone normali e, in contraddizione con il detto che una foto vale più di mille parole, vorrei che la didascalia sotto le foto fosse abbastanza lunga per spiegare e informare. Perché non sono un artista, sono un cronista. Se fotografo una fioraia al mercato di Sarajevo e non racconto la sua storia, la foto ha metà del suo valore, o la madre di Tusla sulla tomba del figlio ventenne sepolto in un parco qualunque. Così sul mio biglietto da visita ci sono due donne con bambini in braccio: vengono dal ghetto dove si trovava padre Zanotelli, dove le donne lavorano nella cooperativa «La Sorellanza» mentre altre tengono i bambini di tutte. Dietro quella foto c’è tutta una storia e la vita collettiva dei villaggi africani».