Bene si addice la definizione di «acceleratore di particelle» coniata per Enrico Ghezzi che domenica 29 luglio ha ricevuto il premio Franco Quadri dedicato al critico teatrale (scomparso nel 2011). Sul palco sotto l’enorme schermo in Piazza Maggiore a Bologna davanti a un folto pubblico, oltre alla giuria (Luigi de Angelis, Piersandra Di Matteo e il figlio Jacopo Quadri) sono saliti anche Mario Mazzone, l’artista visivo e performer (del gruppo teatrale Kinkaleri) ossia l’autore dell’opera-premio, e Gianluca Farinelli, direttore della Cineteca di Bologna che cura la programmazione estiva «Sotto le stelle del cinema». Quest’ultimo soprattutto per sottolineare che l’ambito più adatto per premiare l’inventore di tanti programmi che smonta(va)no il linguaggio televisivo e ben noti al grande pubblico cinefilo e non, come Blob, Schegge e Fuori orario, era la vasta platea di Piazza Maggiore.
RI-AUTORE
La giuria del Premio Franco Quadri ha scelto per l’edizione 2017, appunto, Ghezzi con la seguente motivazione: «Critico cinematografico o ‘ri-autore’, come lui stesso si è definito, è artefice di un lungo ‘detour’ che attraversa il cinema, la filosofia, il teatro, la musica, la letteratura. Padre di programmi televisivi rivoluzionari per lo statuto di spettatore, sul finire degli anni Ottanta – nella pioniera Rai 3 diretta da Angelo Guglielmi – ha inventato linguaggi che hanno sabotato il meccanismo televisivo (da Blob a Schegge a Fuori Orario) facendo propria la ‘regola del gioco’ del montaggio analogico. Ha ideato architetture di festival che hanno scandito il passaggio tra il Novecento e il Duemila festeggiando il cinema come ‘magnifica ossessione’.
LE COSE MAI VISTE
E, soprattutto, ha fatto conoscere a generazioni di spettatori e artisti e critici l’unicità di autori ‘mai visti’, alimentando instancabilmente i nostri sogni notturni attraverso una galleria di specchi senza fine. Dobbiamo al Ghezzi ‘minatore’ la scoperta degli universi remoti di Paradjanov e Pelešjan, Wakamatsu e Kitano, Ioseliani e Tarr, Monteiro e Garrel. Al Ghezzi ‘captatore’, l’aver intercettato i mondi visionari e scomodi di Ciprì e Maresco e di Rezza e Mastrella, come di Alberto Grifi e Tonino De Bernardi. Al Ghezzi del teatro i cut dell’Otello televisivo di Carmelo Bene, come alcuni ispirati montaggi dagli spettacoli di Ronconi, e le maratone nelle connessioni tra teatro e cinema da Welles a Castellucci».
Non è un caso che di fronte a questo vasto immaginario audio-visivo, Marco Mazzone, artista che ha a cuore corporeità, tempo e spazio, abbia scelto di inglobare parole in un contesto visuale, parole, che a suo dire lo stesso Ghezzi gli aveva regalato e che gli aveva insegnato che la parola è immagine: «Non è il tempo a mancarci, siamo noi che manchiamo al tempo».
I QUATTRO CORTI
Poi era toccato al premiato introdurre la serata da lui curata e che ha permesso al pubblico bolognese di (ri)vedere quattro corti del cinema italiano: La ricotta di Pasolini, Toby Dammit di Fellini, Il nuovo mondo di Godard e Colpa del sole di Moravia, unica opera cinematografica dello scrittore romano di pochi minuti realizzata nel 1950. Ghezzi ha attaccato esprimendo il suo rammarico che non ci fosse un film del grande Roberto Rossellini, la cui Fantasia sottomarina avrebbe dovuto aprire le danze delle ombre proiettate sullo schermo, quel magnifico corto che è «un pre-cinema, pre-Lumière o meglio un co-Lumière»… Quando gli fu chiesto di curare la serata, aveva pensato al volo ai corti italiani d’autore «segreti» sebbene collocati nelle varie storie del cinema e a quale fosse la differenza vederli per quello che «sono», senza assegnare loro nessun posto, proprio perché essa, la differenza, è stratosferica. Si scopre il loro corpus cinematografico. «Come voi mi vedete qui in carrozzella perché anch’io ho dovuto scoprire di essere un corpo, di avere o sentirsi un corpo, e non solo un orizzonte cinematografico», ha poi continuato per tornare subito alla definizione più esplicita di corto: quelli di quaranta-cinquanta minuti sono punti di cerniera in quanto non si nota bene cosa succeda, mentre un corto breve – film dell’istante – si vede come un film lunghissimo che dura dalle sei alle ventiquattr’ore, ad esempio le opere di Lav Diaz o di Bela Tarr. «Certo, nel corso di tante ore l’attenzione può incrinarsi, ma cresce l’attesa ansiosa che avvenga qualcosa…».
COLPA DEL SOLE
Della lavorazione del cortissimo di Moravia Colpa del sole Ghezzi ha a lungo cercato qualche foto del set ma invano, non ce ne sono, mentre nel film troviamo ciò che il cinema italiano non è mai stato, senza voler togliere nulla al neorealismo oggi rinascente come una sorta di post-neorealismo magico: «la secchezza di Moravia per una serie di piccoli film guidata da Marco Ferreri, è come se seccasse – sempre se qualcuno avesse voglia di rifare la storia del cinema o dei cinemi – le cose inutili in qualcosa di affabile, comicamente immobile». Il film secondo Ghezzi è una vera sorpresa da ogni punto di vista, soprattutto com’è organizzata la successione voyeuristica dei pubblici: «noi siamo i destinatari delle sue immagini come di quelle di registi da Buñuel in su o in giù – è un film davvero eccezionale!» Toby Dammit e La ricotta li aveva mandati entrambi al filosofo Giorgio Agamben definendoli «i due film più belli del cinema italiano». Del Nuovo mondo di Godard non ha voluto dire nulla, tranne che fu maltrattato dagli amici critici francesi. Ghezzi ha voluto offrire uno sguardo europeo, ma si era accorto che alla fine era di sovranità limitata per la mancanza della Fantasia sottomarina: «una fitta lancinante nel cervello, trovarsi davanti questo nulla»…