Sono tornati, senza essere mai scomparsi. E spesso senza riuscire a evitare di dare il peggio di se stessi. Il finale di stagione del calcio italiano, in attesa dell’appendice dei Mondiali russi – con il tricolore assente ma l’emergenza del tifo organizzato sarà un complicato rompicapo – rimette sul dischetto di centrocampo la presenza invasiva degli ultras dentro e fuori gli stadi. I fatti sono risaputi, hanno riscosso l’attenzione mediatica e non poteva essere altrimenti.

L’ultimo episodio è avvenuto a Napoli, dove un giornalista, durante una diretta televisiva all’esterno del San Paolo prima della partita con il Torino, è stato invitato con poca gentilezza a spegnere la telecamera e ad allontanarsi dal posto in cui gli ultras del club azzurro erano raccolti in protesta contro gli arbitri, per gli errori che avrebbero contribuito a spostare l’asse dello scudetto da Napoli a Torino, sponda Juventus. Immagini che sono andate in video, su siti e tv, con coda di polemiche e commenti. Una manciata di secondi di intolleranza e intimidazione. Mentre a Verona, qualche giro di orologio prima, si è andati oltre, con una decina di tifosi del Chievo, fortemente implicato nella corsa a evitare la retrocessione in B assieme a un manipolo di squadre, che ha fatto irruzione nel centro sportivo del club veneto, a Veronello. Motivazione? Parlare con la squadra in crisi di risultati, con un dirigente del Chievo – ed ex attaccante del Verona, Juventus e Atalanta -, Marco Pacione, che per il disturbo che si era preso provando a mediare tra le parti si è visto schiaffeggiare da un ultrà. E fanno due, in pochi giorni.

E meno di un mese fa sempre a Verona toccava ai tifosi organizzati dell’Hellas, retrocesso matematicamente durante l’ultimo turno di campionato, a cercare un confronto, un contatto con i calciatori, evitato con l’intervento della polizia. Nessun contatto, mani a posto, «solo»  cori e striscioni poco inclini a tifo e amicizia. E in mezzo, per restare alla cronaca delle ultime settimane (ma gli episodi di intolleranza, tra cori razzisti non hanno mai avuto fine), i danni a domicilio ricambiati dagli ultras di Roma e Liverpool, con un tifoso dei Reds, Sean Cox, rimasto vittima degli scontri a margine della semifinale di andata di Champions League, ad Anfield Road. Rieccoli, quindi. Con quel concentrato di potere che impedisce alle società – prima conniventi, forse ora, come le istituzioni, incapaci di gestire il fenomeno – di isolarli, allontanarli. La realtà, innegabile, è che gli ultras esistono, a prescindere da quanti siano.

Un collettivo che determina aggregazione, che non è possibile estinguere, un contenitore di ragazzi che semplicemente cantano cori e seguono la squadra, di altri che invece cercano rogne, di altri portatori di interessi, come quelli con un «lavoro» da capo tifoso. E senza dimenticare il ruolo della criminalità organizzata (associata agli ultras) che riesce a inserirsi nel giro di potere, per esempio nel bagarinaggio, come avvenuto nel caso ‘ndrangheta-Juventus. Oppure, come si leggeva in un rapporto della Commissione Antimafia nei mesi scorsi, capi ultras «organicamente appartenenti ad associazioni mafiose o a esse collegate» .

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