Il bilancio delle vittime civili afghane causate dall’attentato di due giorni fa all’aeroporto di Kabul si fa pesantissimo: almeno 175 secondo le ultime stime. A cui si aggiungono i 13 soldati statunitensi per i quali in un discorso alla nazione il presidente degli Usa ha promesso vendetta. «Non perdoneremo, non dimenticheremo. Vi colpiremo ovunque voi siate», ha dichiarato Biden. Il quale chiude il ventennio della guerra afghana – lanciata nel 2001 come rappresaglia agli attentati dell’11 settembre alle Torri gemelle e al Pentagono – usando parole simili a quelle con cui il predecessore George W. Bush 20 anni fa inaugurava la war on terror.

QUESTA VOLTA LA VENDETTA è contro lo Stato islamico, gruppo terroristico che allora non esisteva e che oggi rivendica una strage dagli obiettivi molteplici. Il primo sono gli Stati uniti: colpiti nel momento di massima debolezza, vulnerabilità ed esposizione, a poche ore dal completamento del ritiro concordato nell’accordo di Doha del febbraio 2020 voluto da Donald Trump e confermato nella sostanza da Joe Biden. Ieri il presidente Usa ha rivendicato la scelta: non c’erano alternative al ritiro. L’unica, sostiene, era ricominciare «una guerra già vinta» inviando migliaia di nuovi soldati.

Curiosa visione delle cose, quella di dichiarare vittoria mentre il Paese è in mano ai Talebani, ieri nemici, poi interlocutori diplomatici, infine alleati contro lo Stato islamico e per la sicurezza dell’aeroporto. Dove ieri sera sono entrati mezzi e soldati delle truppe speciali dei turbanti neri, le ormai famigerate Unità Badri 313: ci prendiamo anche l’ultimo territorio rimasto fuori dal nostro controllo, facevano sapere sui loro canali social. Quando gli viene chiesto conto della debacle in corso, del perché «l’uscita onorevole» dal pantano afghano si sia rilevata una catastrofe, Biden fa ricorso ai più vetusti cliché orientalisti, intrisi di razzismo: l’Afghanistan non è mai stato un Paese unito, ma un insieme di tribù belligeranti, ha sostenuto. La missione civilizzatrice dell’uomo bianco, questo il sottinteso, non può riuscire in una terra simile. Nonostante l’eroismo dei «nostri soldati, i più coraggiosi sulla terra, la spina dorsale degli Stati uniti». Spezzata dai Talebani, oggi al potere, ma colpiti anche loro dall’attentato della branca locale dello Stato islamico, la “Provincia del Khorasan”.
I Talebani sono il secondo obiettivo di un attentato che, fa sapere Washington, è stato causato da un solo attentatore suicida. L’unica esplosione sarebbe quella avvenuta all’Abbey Gate, uno dei cancelli d’ingresso all’aeroporto “Hamid Karzai” e il collo di bottiglia dove ancora ieri, nonostante la strage del giorno precedente, centinaia di persone si sono radunate in cerca di una via di fuga.

IL DIPARTIMENTO DI STATO USA fa sapere che il ponte aereo continua, anche se l’ingresso dei Talebani all’aeroporto potrebbe segnare novità significative. Non è un caso che abbia lasciato Kabul anche Stefano Pontecorvo, già ambasciatore italiano in Pakistan e ora rappresentante civile della Nato in Afghanistan, tra le persone che hanno gestito il processo di evacuazione. Dalla capitale afghana ieri è partito anche l’ultimo C-130J con a bordo i militari italiani. Game over. Partita finita. Perlomeno per le truppe straniere. Se ne apre però un’altra.

I Talebani, che appena arrivati al potere hanno rivendicato il monopolio della forza, rassicurato la popolazione sulla loro capacità di proteggerli, di dar loro sicurezza, di mettere fine a un conflitto che ogni anno ha mietuto almeno 3.000 vittime civili, provocate anche da loro, sono in difficoltà. I membri della Commissione cultura sostengono che quanti partono sono migranti economici, in cerca di migliori prospettive di vita. Che nessuno teme i Talebani.
Spostando lo sguardo altrove, al confine con il Pakistan, la scena è simile. La spinta migratoria è enorme. Tra le 4.000 e le 8.000 persone attraversano ogni giorno il confine di Spin Boldak-Chaman, accolti con riluttanza da Islamabad, che vuole relegarli nei campi profughi a ridosso della Durand Line e che continua a giocare una partita oscura. L’establishment militare coltiva rapporti sia con la Provincia del Khorasan, sia con gli Haqqani, la rete più oltranzista dei Talebani, che negli anni passati ha stretto accordi temporanei con lo Stato islamico, poi ripudiati. E che oggi ha la responsabilità della sicurezza a Kabul.

UN MOVIMENTO che promette legge, ordine, disciplina, fine della guerra, i Talebani devono affrontare anche altri problemi rispetto alla sfida dello Stato islamico. Meno visibili, ma altrettanto rilevanti. Da gruppo armato e movimento di guerriglia devono farsi partito di governo e istituzioni. Devono mandare avanti un Paese da 35 milioni di abitanti in profonda crisi economica e drammatica crisi umanitaria.

Dovranno presto fare i conti, letteralmente. Per ora si limitano a muovere la macchina della propaganda. Il governo – non ancora formalmente annunciato – funziona, fanno sapere. Siamo in grado di governare. Anche con la partecipazione delle donne. Ieri hanno annunciato che tutto il personale femminile del ministero della Salute può tornare al lavoro. Mentre la delegazione della Commissione per l’Istruzione ha tenuto «un incontro di rassicurazione con i funzionari ministeriali». Ieri sera, troppo tardi per darne conto qui, era previsto un importante discorso alla nazione del vice capo della Commissione politica, Sher Mohammad Abbas Stanikzai, tra gli artefici dell’accordo di Doha che ha portato al ritiro delle truppe straniere. Forse anticipato rispetto alla data scelta da Biden, il 31 agosto.