Di quei templi non è rimasto che qualche brandello sui muri: teli funerei crocifissi alle pareti, bandiere annerite da fiamme reazionarie, mirror ball senza luce, cocci di bottiglie, fotografie di corpi nudi gioiosamente ammassati, bagliori e ombre leather ad amalgamare il sentore funereo di qualcosa di irripetibile. Non si può che parafrasare Ungaretti nel descrivere i pochi elementi scenici che compongono l’installazione Death Disko: Last Dance di Lovett/Codagnone, ultimo lavoro del duo artistico fino al 15 luglio presso la galleria Bad New Business, a cura di Antonio Leone e Francesco Pantaleone, con il supporto musicale di Michele Pauli, storico membro fondatore dei Casino Royale, che per l’occasione ha arrangiato Last Dance di Donna Summer in un loop tormentato e senza scampo.

Accompagnata da un catalogo-fanzine che mescola il ricordo dei ciclostilati da stampa alternativa con il rosa delle pagine della storica rivista BUTT, Death Disko: Last Dance conferma il carattere di fortissima azione creativa e politica che ha sempre contraddistinto l’arte multi-linguaggio dei due artisti, attivi fin dalla metà degli anni ’90 nella scena underground prima newyorchese e poi italiana. Per l’occasione, lo sguardo di Lovette/Codagnone ritorna alla gioventù degli ultimi anni ’70 e presenta un paesaggio collassato, vero e proprio «Disco Inferno» di desolazione dove lo spazio di libertà sessuale, politica e sociale è oramai ridotto a funereo ricordo di quell’estate del ’79, anno simbolico della morte della disco music.

Nel Comiskey Park di Chicago infatti, il 12 luglio di quell’anno, prima di un’importante partita di baseball, un gruppo di deejay rock organizzò la «Disco Demolition Night»dove una folla inferocita gridava «Disco sucks!» mentre i fumi tossici di centinaia di vinili bruciati sancivano, in diretta televisiva, la fine di un’epoca. Una serie di fattori concomitanti, come l’elezione di Ronald Reagan etre anni più tardi l’epidemia dell’Aids, contribuirono a segnare il declino della disco music negli Stati uniti e il movimento anti-disco, sorta di fanatismo carico di razzismo e omofobia, spazzò via definitivamente quel movimento di (sotto)culture americane, attuando un processo di normalizzazione e disciplinamento in grado di soffocare la (contro)cultura non-omologata e orgogliosamente fiera del dissenso.

Death Disko: Last Dance, titolo omaggio al nichilismo post punk dei PIL di John Lydon, è soltanto la prima di una serie di mostre che racconteranno non solo la «gentrificazione» di New York, un tempo identificata come Babele licenziosa, ma anche i processi di normalizzazione che hanno spazzato va quell’incredibile fucina di arte e cultura capace di creare un melting-pot sovversivo e democratico di classi sociali.

3Lovett_Codagnone_After Roxy 2_courtesy Francesco Pantaleone Palermo

La disco music è, nelle parole di Lovett/Codagnone, «una rivoluzione sessuale che avviene nella pista da ballo, dove il linguaggio del corpo si esprime con una libertà che mai aveva conosciuto nei corpi pubblici, con corpi consenzienti, non preoccupati esclusivamente dei comportamenti sessuali accettati». L’installazione dunque è un ultimo ballo sul doppio filo della sana nostalgia e dell’importanza del presente, un eco terribile di un «meraviglioso osceno» in grado di produrre l’integrazione razziale e sociale più autentica, un invito a continuare a lottare per affermare la differenza, a rifiutare l’appiattimento che cancella la Storia e a sognare nuovamente un corpo che nel segno della libertà e della resistenza voglia sperimentare, al di là delle norme e dei ruoli.