Chi si fosse chiesto perché Art Spiegelman, in Maus, abbia rappresentato i polacchi come porci (peggio, no?, che i tedeschi come gatti) lo capirà leggendo Un raccolto d’oro Il saccheggio dei beni ebraici di Jan Tomasz Gross e Irena Grudzinska Gross, docenti di Princeton emigrati dalla Polonia nel 1968. Non è un fumetto, non racconta lo sterminio dalla prospettiva di un’unica famiglia, non ricorre all’espediente del testimone secondario, sconvolto dal trauma del sopravvissuto; ma con Maus il saggio dei Gross condivide l’ambientazione (la Polonia occupata), la tipologia dei personaggi (il triangolo ebrei-nazisti-polacchi) e soprattutto la cornice interpretativa, in stridente contrasto con le narrazioni auto-assolutorie della Polonia post-bellica (a scuola raccontano che i polacchi aiutavano gli ebrei a salvarsi).

«Sono quei nazisti a incitare la gente!», si difende la domestica polacca di Vladek e Anja Spiegelman alla notizia di una sommossa antisemita patrocinata dalla polizia locale. «Se si tratta di ebrei non c’è molto da incitarli, i polacchi!», risponde Anja. Altrettanto severo è il giudizio storico dei Gross. Già dalla fotografia da cui trae avvio l’analisi – una sorta di foto-ricordo, probabilmente scattata nei dintorni di Treblinka nell’immediato dopoguerra – l’attenzione è indirizzata verso un particolare sconcertante. I soggetti, un gruppo di contadini e contadine della Masovia, hanno l’aria di chi ha concluso proficuamente una giornata di lavoro; vanghe in mano, si dispongono su due file in posa per lo scatto, un po’ impacciati, mentre otto soldati in divisa si uniscono alla compagnia, al lato, come se avessero collaborato alle attività del giorno. Ma – è questo il particolare sconcertante – ai piedi della comitiva, là dove ci si aspetterebbe di vedere il raccolto, balugina un mucchio di ossa e di teschi umani. Dato il luogo, non è difficile intuire a chi appartengano i resti, e immaginare le ragioni del loro disseppellimento: con ogni probabilità i contadini cercavano i denti d’oro e altri preziosi sfuggiti ai nazisti.

Il saccheggio dei lager dismessi è una pratica ampiamente documentata dalle testimonianze dell’epoca. «Una volta arrivati sul posto, abbiamo constatato che là dove prima sorgeva il lager c’era ora un campo tutto pieno di scavi e di solchi a opera della popolazione locale», scrissero Michal Kalembasiak e Karol Ogrodowczyk in un rapporto del 13 settembre 1945. Nel corso di un’indagine sui crimini tedeschi Rachela Auerbach registrava un’analoga testimonianza, mentre definiva Treblinka «il Colorado polacco». Altri documenti riportano le parole degli scavatori stessi, stupiti per l’accusa di furto dal momento che alla febbre dell’oro ebraico partecipavano tutti, alla luce del sole, inclusi alcuni soldati sovietici.

La ricostruzione procede a ritroso nel tempo per capire da dove scaturisse la serafica ammissione di una fattispecie di reato che, dalla distanza di sicurezza che ci separa dagli eventi, appare particolarmente infame.

L’elenco dei misfatti è impressionante: dal mercato nero all’interno dei campi – dove le guardie spacciavano la roba sottratta alle vittime in cambio di vodka, cibo e prestazioni sessuali fornite dalle popolazioni locali – al commercio di secchi d’acqua venduti a peso d’oro ai deportati ancora chiusi nei vagoni in arrivo, sfiniti dal viaggio e in procinto di essere mandati nelle camere a gas; dalle delazioni ai ricatti e alle estorsioni cui venivano sottoposti gli ebrei nascosti (spesso a pagamento) nelle campagne e nelle città; dai saccheggi di negozi e di abitazioni ebraiche alle battute di caccia nei boschi, fino all’eccidio di intere famiglie, talvolta con la collaborazione della polizia e dei vigili del fuoco.

In uno degli episodi meno truci, tra quelli riportati nel libro, Chaja Finkelsztajn racconta di come, subito prima del pogrom di Radzilow, una vicina di casa le suggerì di darle le sue cose migliori, visto che di lì a poco non le sarebbero più servite.

Una richiesta frequente, a quanto pare, generalmente seguita da reazioni sdegnate da parte dei postulanti quando le vittime si rifiutavano di collaborare alla propria spoliazione.

«Peggio dei tedeschi», commentano molti ebrei (incluso Vladek Spiegelman) nel rievocare simili vessazioni. Chiaramente non è vero: nulla è peggio dello sterminio realizzato su base industriale. Tuttavia si capisce da dove nasca questo giudizio, iperbolico solo in quanto l’altro termine di paragone – l’efferatezza nazista – eccede qualsiasi scala di valori. Tenuto conto che l’unica possibilità di salvezza per i singoli ebrei passava attraverso la collaborazione delle popolazioni locali (dopotutto si trattava di un paese invaso da un nemico comune), il tradimento dei vicini di casa doveva risultare oltremodo doloroso, specie alla luce della meschinità dei suoi moventi.

Com’è stato possibile che interi villaggi partecipassero a massacri come i «casi d’agosto» del 1944, quando 250 persone furono accusate dell’uccisione di centinaia di ebrei clandestini per mezzo di armi da fuoco, asce e paletti di legno? Ed è solo la punta dell’iceberg, vista la riluttanza nazionale – anche dopo la guerra – a perseguire quel tipo di crimini. «Non è il numero delle vittime, ma quello degli assassini che ha un significato eloquente», osservano i Gross. Un sostrato di pregiudizio antigiudaico, alimentato dalle consuete accuse di deicidio, di rapacità economica e di attitudine alla cospirazione, giustificava tanto le azioni più sanguinarie quanto i reati contro il patrimonio, che alcuni motivavano con argomenti patriottici (meglio a noi che ai nazisti), nella convinzione diffusa e a malapena sottaciuta che, almeno sul piano della degiudeizzazione, i tedeschi avessero fatto un favore alla Polonia.
Secondo l’interpretazione ufficiale, le violenze antiebraiche furono eccezioni, comportamenti devianti acuiti dal caos della guerra. Diversa la lettura suggerita da Un raccolto d’oro. Pur riconoscendo che non si trattò di fenomeni esclusivamente polacchi (Ucraina e Lituania non furono da meno), e pur mantenendo aperto il computo comparativo di vittime, carnefici e Giusti (perché, sì, in mezzo a tanti obbrobri c’era anche chi aiutava gratuitamente gli ebrei a nascondersi), i Gross insistono sul carattere sistemico e culturalmente normato di queste pratiche, talmente radicate nella storia del paese – complice una Chiesa in larga parte accondiscendente – da impedire che oggi se ne possa discutere senza incorrere in sanzioni.

Già nel 2001, quando uscì I carnefici della porta accanto (Mondadori 2002) sul pogrom degli ebrei di Jedwabne nel 1941, Jan Gross si era trovato al centro di un tesissimo dibattito nazionale. Da una parte la discussione inaugurò un nuovo filone di ricerche, confluite nella creazione del Centro di Studi sull’Olocausto in Polonia. Ma dall’altra ravvivò antichi rancori, destinati a infoltire il fronte catto-nazionalista, ostile a qualsiasi indagine che mettesse in dubbio il racconto eroico di un paese resistente e vittimizzato. Gross fu accusato di tradimento e sottoposto a campagne d’odio (migliaia di lettere inviate al Presidente per chiedere che gli venisse tolta l’onorificenza di cui era stato insignito nel 1996 in virtù della sua passata militanza antisovietica). Di lì a poco Diritto e Giustizia, il partito dei gemelli Kaczynski nel frattempo salito al potere, varava nuove leggi della memoria a tutela della reputazione nazionale. I paragoni col negazionismo di Stato in Turchia non sono fuori luogo.

C’è una coda a questa vicenda. Nel settembre del 2015 Gross pubblicò un articolo sull’egoismo dell’Europa orientale nei confronti dei migranti. Tra i paesi refrattari all’accoglienza figurava la Polonia, inizialmente disposta a ricevere 2000 rifugiati, purché cristiani. Una parte consistente dell’opinione pubblica insorse con toni decisamente xenofobi. Da dove veniva quella nuova ondata di intolleranza? Secondo Gross essa era il sintomo di una mancata elaborazione del Trauma, lo strascico lungo di una colpa storica negata. E sebbene, a riprova della sua buona volontà europeista, la Polonia sia stata tra i primi paesi a istituire leggi anti-negazioniste simili a quelle che purtroppo stanno per essere approvate in Italia, c’è un nesso tra l’attuale populismo vittimistico e gli sfoghi razzisti di cui si legge in Un raccolto d’oro.

L’articolo venne ripreso da Die Welt che diede rilievo all’osservazione secondo cui «i polacchi, giustamente orgogliosi della loro resistenza anti-nazista, in effetti uccisero più ebrei che tedeschi durante la guerra». Per le autorità era davvero troppo. In base alle leggi vigenti, Gross fu accusato di lesa nazione, reato passibile di una condanna sino a tre anni di reclusione. Il monito che se ne ricava è chiaro: mai lasciare che lo stato decida cosa e come è giusto ricordare. La storia cura, la memoria ammala.