Appesi a un filo, con il calendario che certo non aiuta e la paura di star facendo una fusione a freddo di vertici senza che le basi riescano davvero a dialogare tra loro: il Pd e il Movimento 5 Stelle, nelle Marche, hanno tempo fino a venerdì per chiudere l’accordo sull’alleanza in vista delle regionali del 20 e 21 settembre. Il via libera arrivato da Rousseau alle coalizioni locali ha eccitato soprattutto i democrat, che adesso spingono fortissimo per il ticket tra il proprio candidato Maurizio Mangialardi e il pentastellato Gian Mario Mercorelli.

Il sindaco di Pesaro Matteo Ricci, che già a gennaio ha imbarcato in giunta un pezzo di M5S, gioca a carte scoperte: «Ora basta tentennamenti, si faccia l’alleanza per Mangialardi presidente. I 5 stelle diventino protagonisti di un progetto di rinascita della regione dopo l’emergenza covid».

Ufficialmente, sin qui, i grillini rispondono picche – «È un’ipotesi priva di fondamento» – ma in realtà la trattativa è avviata e si studia il come fare, con il perché farlo che ormai è del tutto sottinteso: la convinzione è che solo unendo gli sforzi sarà possibile battere una destra che tutti i sondaggi danno in vantaggio di qualche punto. Non solo, vista la legge elettorale, rispetto alla corsa solitaria, l’entrata in coalizione permetterebbe al Movimento 5 Stelle di eleggere più consiglieri regionali.

I problemi, comunque, non sono pochi: il Pd deve gestire la ferma contrarietà di Italia Viva e di Azione, mentre il M5S pone come condizione l’eliminazione dei propri fuoriusciti dalla lista «Marche coraggiose» messa in piedi da Articolo Uno e dagli esuli grillini Gianni Maggi e Romina Pergolesi. Altro punto imprescindibile per i dem: il candidato dovrà essere quello già scelto dal centrosinistra, e nessuna discussione è possibile al riguardo.

Forse si tratta solo di dettagli, di angoli da smussare, ma il pochissimo tempo a disposizione non favorisce la creazione dal nulla di un’alleanza tra forze politiche che negli ultimi anni hanno dialogato quasi solo a colpi di clava.

A sinistra si mangiano le mani per un progetto che nasce all’ultimo momento utile quando per mesi qualcuno si è speso per la costruzione di un’alleanza ampia e credibile in grado di essere davvero una storia nuova rispetto agli ultimi complicatissimi anni, un periodo in cui il centrosinistra ha dilapidato un notevole capitale di consenso lanciandosi in impopolarissime campagne sulla sanità e gestendo in maniera molto discutibile il post sisma del 2016.

«Avevamo chiesto discontinuità – spiega il segretario di Sinistra Italiana Peppino Buondonno, che sostiene la candidatura del filosofo Roberto Mancini con la lista Dipende da noi -, quella di andare da soli non è stata una nostra scelta, ma è stata determinata dalla poca volontà del Pd di cambiare le logiche che ci hanno portato sin qui, cioè con la destra che rischia di vincere le elezioni.

Mancini aveva dato la disponibilità a convergere tutti sul nome di Sauro Longhi (ex rettore dell’Università di Ancona, ndr) ma dall’altra parte non ne hanno mai voluto sapere. Quella tra Pd e 5 Stelle non è un’operazione che mi convince: bisogna comprendere che i territori hanno una loro storia e che le alleanze si fanno sui contenuti, sulla qualità reale del personale politico, sulle scelte».

Sinistra Italiana, ad ogni buon conto, non ha fatto scelte formali, tanto è vero che una parte del partito sosterrà il centrosinistra. «Il grosso dei militanti ha scelto Mancini – dice ancora Buondonno -, abbiamo comunque aderito a titolo individuale. Dipende da noi non è un’accozzaglia di partiti, ma un movimento aperto».