La recente letteratura scientifica ha posto (e risposto a) due domande: «come può l’agricoltura biologica contribuire a sfamare il pianeta?» (Wilbois e Schmidt, Reframing the Debate Surrounding the Yield Gap between Organic and Conventional Farming) e «può l’agroecologia soddisfare le esigenze alimentari dell’Europa al 2050?» (IDDRI, An agroecological Europe in 2050: multifunctional agriculture for healthy eating).

In entrambi i casi emerge un quadro incoraggiante, nel senso più proprio del termine: biologico e agroecologia rappresentano opzioni che vanno incoraggiate perché capaci di dare risposte efficaci. Se nel primo lavoro citato si invita a rinnovare le metriche con cui si giudica il settore biologico e il suo divario produttivo rispetto al convenzionale, sottolineando come un sistema produttivo non generi solo rese di biomassa, ma un complesso sistema di funzioni e servizi in cui l’intensificazione ecologica può permettere di rimpiazzare costosi fattori di produzione esterni all’azienda agricola, nel secondo si auspica uno scenario in cui una transizione agroecologica si accompagni a una transizione dietetica, scenario che può realizzarsi compiutamente.

Si tratta di esempi di letteratura scientifica che fanno impallidire il dibattito asfittico sul gap di rese tra convenzionale e biologico basato su presupposti agronomici di stampo produttivista; per capirci, quelli che si insegnavano nelle Facoltà di Agraria degli anni ’80, al termine della parabola della Rivoluzione Verde, per massimizzare la produttività con robuste dotazioni di unità di azoto fertilizzante mentre i mercati si liberavano di surplus inviato al macero a spese della PAC.

Ora il quadro è decisamente evoluto, nonostante persistenti sacche di conservazione, e si guarda con maggiore sistematicità al nexus agricoltura-ambiente-società. Uno di questi anelli tiene insieme la salute del pianeta e degli individui con produzione e consumo di cibo. È del mese scorso la sfida lanciata dalla rivista medico-scientifica Lancet (The Global Syndemic of Obesity, Undernutrition, and Climate Change: The Lancet Commission report) sulla compatibilità della dieta globale con il clima con cui si invitava a più sobri ed equi regimi alimentari.

La buona notizia è che una dieta più equilibrata e nutrizionalmente idonea, quella ricca in vegetali (con particolare riferimento a ortofrutta e legumi), risulta anche più sana per il clima. L’ancora migliore notizia, ci dice l’IDDRI nel lavoro citato in apertura, è che questa compatibilità si perfeziona con l’adozione di approcci agroecologici garantendo la disponibilità di alimenti per tutti. Insomma, lo sguardo sistemico ai problemi alimentari premia chi a livello agricolo adotta soluzioni sistemiche. La cattiva notizia, al contempo, è che non c’è tempo da perdere per invertire il quadro.

È così che assume senso contemporaneo e prospettico l’iniziativa volta a restituire dignità e valore scientifico all’ingiuriato biologico, promossa da un primo nucleo di accademici e ricercatori italiani, che sta raccogliendo un numero crescente di adesioni (ora 500). Queste esprimono la vivacità della comunità di ricerca nazionale che opera nel settore bio e che vi riconosce virtù. Da questa rete di pratica e ricerca può infatti venire un importante contributo di contestualizzazione e progressione di criteri e tecniche a vantaggio del settore e della sostenibilità. Anche perché è opportuno che gli sforzi e gli investimenti in ricerca si dirigano prioritariamente su come migliorare le performance produttive, ambientali e sociali del biologico, più che sulla loro valutazione comparativa, proprio per rafforzarne quel ruolo che taluni tuttora criticano.