Un amore splendido, quello che tormenta Jack Harper (Tom Cruise) mentre si sposta sulla superficie spoglia di un pianeta devastato da una guerra nucleare provocata da un’invasione aliena. Come se avesse visto un vecchio film hollywoodiano in bianco e nero, continua a tornare con la mente, con i sogni, con l’immaginazione sull’Empire State Building, dove lo attende Julia (Olga Kurylenko). Scrutando oscuramente attraverso il periscopio sul tetto del grattacielo, Jack intuisce che c’è qualcosa di fondamentalmente sbagliato nella rappresentazione del mondo con il quale si confronta quotidianamente.

Plot profondamente dickiano, quello di Oblivion, nuovo film firmato dall’interessante Joseph Kosinski già autore dell’ottimo Tron Legacy. Jack Harper, proprio come il protagonista de L’uomo dei giochi a premi, continua a svolgere giorno dopo giorno un lavoro che progressivamente inizia a evidenziare falle e crepe che aprono, letteralmente, squarci verso altri mondi. Adottando un ritmo disteso e dilatato, Kosinski si distacca con forza da buona parte delle convenzioni visive del cinema di fantascienza degli ultimi decenni. Immerso in una luce a tratti addirittura abbacinante, con una netta dominante cromatica del bianco e delle sfumature di grigio, Oblivion recupera e contemporaneamente omaggia l’estetica distopica della fantascienza settantesca (in testa, ovviamente,

L’uomo che fuggì dal futuro di George Lucas e in misura minore Andromeda di Robert Wise).
Nonostante il tessuto narrativo del film sia costellato di una serie di citazioni evidenti (anche molto divertenti), basti pensare al Tet che è un chiaro omaggio al Galactus della Marvel, Kosinski imprime al racconto una forza dovuta soprattutto all’interazione tra i protagonisti. Paradossale dramma da camera concepito per gli Imax (splendido il momento in cui Jack sceglie un Lp dalla sua collezione di vinili), Oblivion permette agli spazi sterminati del pianeta di diventare la tela sulla quale ridisegnare gli equilibri sentimentali necessari per mettere in discussione la prospettiva unica del presente. Il film di Kosinski, infatti, è un’arguta parodia dell’organizzazione del lavoro: anche dopo la fine del mondo, il lavoro continua a esistere a riprodursi come per partenogenesi in quanto strumento del controllo definitivo.

Il sottrarsi alla logica del lavoro è l’elemento che permette a Jack di mettere in discussione l’ordinamento sociale della sua solitudine. In questo senso, i presunti Scavengers (predatori, saccheggiatori), presentati come un incrocio fra un Predator meno bellicoso e le creature del deserto di Guerre stellari dedite alla raccolta di metallo, sono una specie di Morlock proletari, costretti a vivere sotto terra per sfuggire al regime dello sfruttamento intensivo del lavoro (e alla logica dello sterminio). Gli Scavengers, come i pochi superstiti umani di The Walking Dead, vivono dei rifiuti, rubando i pochi mezzi di sopravvivenza che ancora restano sul pianeta.
Oblivion, in questo senso, riesce abilmente a riportare in vita mitologemi fondanti la fantascienza politica intrecciandola con gli aspetti più sottilmente paranoici e innovativi della sf degli anni Sessanta.

Il film di Kosinski, infatti, oltre a essere un’appassionante parabola libertaria, un melodramma spettrale e un’attenta riflessione sulla fine del mondo occidentale intesa come termine dello sfruttamento intensivo delle risorse utili, mette abilmente in campo numerosi mitologemi dell’immaginario collettivo filtrandoli attraverso un principio d’individuazione da rifondare. Retto dalle ottime e discrete musiche degli M83, Oblivion (una sorta di variazione mutante di Wall E), confermando il talento di Kosinski, si offre come un blockbuster intimista e minimale che rifiuta la seduzione del facile effetto speciale rilanciando le ragioni del cinema.