Il sociologo tedesco Ulrich Beck è morto il primo gennaio per un attacco cardiaco. L’autore della «società del rischio» (pubblicata in Italia da Carocci) aveva 70 anni. La notizia è stata confermata ieri dalla famiglia al quotidiano Süddeutsche Zeitung. Beck ha insegnato a Parigi, poi alla London School of Economics e dal 1992 a Monaco dove aveva la cattedra di sociologia all’università Ludwig-Maximilians. Nato nel 1944 a Stolp, in Pomerania (oggi Slupsk in Polonia), Beck ha studiato sociologia, filosofia, psicologia e scienze politiche. Tra le sue opere, pubblicate in italiano, si ricordano anche Che cos’è la globalizzazione. Rischi e prospettive della società planetaria (Carocci, 1999), Il lavoro nell’epoca della fine del lavoro (Einaudi, 2000) e Europa tedesca: la nuova geografia del potere (Laterza, 2013).

Il rischio e la sua ricca polisemia. Questo è il tema che ha segnato inizialmente la sua opera. Beck lo ha articolato in incertezza, insicurezza e pericolo. In tedesco «Sicherheit» è una parola ambivalente. Per spiegarsi Beck ricorreva a tre parole inglesi: «Unsafety» che evoca una minaccia mortale, ad esempio un attentato terroristico, e appartiene alla grammatica della destra; «Unsecurity» evoca, invece, l’aspetto sociale dell’insicurezza, mentre la parola «Uncertainty» indica l’incertezza scientifica.

«Dobbiamo accettare l’insicurezza come un elemento della nostra libertà – sosteneva Beck – Può sembrare perverso, ma questa è anche una forma di democratizzazione: è la scelta, continuamente rinnovata, tra diverse opzioni possibili». Il rischio è un mezzo di comunicazione negativo. Come il denaro, o il potere. Obbliga chi preferirebbe vivere ignorando il problema a comunicare oltre le frontiere e le identità. Mentre il potere tende a ridurre a zero il rischio attraverso tecnologie immunitarie, burocratiche, totalitarie o performative, Beck invitava a considerarlo come l’occasione per una scelta o l’inizio di una prassi trasformativa.

Il sociologo tedesco era inoltre consapevole che sull’ambivalenza del rischio si siano giocate le sorti delle politiche del lavoro in Europa dagli anni Novanta in poi. Invece di riflettere, in maniera sterile, sull’alternativa tra precarietà e flessibilità, Beck preferì affrontare la ben più complessa contraddizione tra lavoro salariato e «attività operose». Riletta oggi, al settimo anno di crisi, questa analisi è senz’altro attuale e controcorrente. Al volgere del millennio, infatti, Beck avvertì come la precarietà, la sotto-occupazione e la disoccupazione erano ormai diventate parti della biografia normale di un essere umano nell’Occidente capitalistico, proprio come il matrimonio o il divorzio. Davanti a questa svolta epocale, né i neoliberisti, né i neo-keynesiani, hanno trovato il coraggio di riconoscere la realtà: il pieno impiego è una chimera. Per ragioni opposte, Beck definiva irresponsabile la cecità di entrambi. E in un’intervista a Libération nel 2002 aggiunse: «Non dovrebbe meravigliarci se un giorno i populisti ne approfitteranno». Parole profetiche che hanno anticipato la tragedia del nostro presente.

Beck criticò inoltre il Welfare basato sul lavoro salariato, incapace di restituire la dignità al cittadino immerso in un’orizzonte di occupazioni precarie, atipiche o informali. Da qui la sua ostinata richiesta di riconoscimento delle forme di attività «plurali»: il mutualismo, il lavoro di cura, quello di cittadinanza, l’attivismo, il volontariato. Attività che andrebbero sostenute da un Welfare fondato sulla persona e non sulla sua appartenenza corporativa, professionale o sul suo individualismo. Strumento fondamentale di questa politica universalistica era, e resta, il reddito minimo, di base o di cittadinanza a livello europeo. Il primo gennaio è scomparso un generoso cittadino europeo, non solo un grande sociologo.