Il 2 febbraio del1922 veniva pubblicato a Parigi l’Ulisse di Joyce, un libro che avrebbe dovuto cambiare le sorti della letteratura a venire. A cento anni dalla sua pubblicazione assistiamo a un ritorno della letteratura a schemi romanzeschi pre-joyciani e pre-modernisti, improntati al realismo della verosimiglianza; ma non per questo la lezione di Joyce è andata perduta.
Gli anniversari di grandi opere danno infatti spesso adito al risorgere di interesse nei loro confronti, e non soltanto tra gli specialisti. Di recente, ad esempio, Jovanotti ha pubblicato su tik-tok un video sul suo rapporto con l’Ulisse, un ipertesto in grado di aprire istantaneamente mondi. Ha ragione, il cantautore, perché il romanzo di Joyce, come tanti capolavori, funziona su più piani. Parla al futuro del presente partendo dal passato, ma in una continuità storica e artistica «immarginabile», come direbbe il suo autore.

NELLA SUA MENTE, l’Ulisse avrebbe dovuto cambiare non solo la letteratura ma anche il mondo. Disse infatti che se, come alcuni pensavano, per la sua difficoltà non valeva la pena di leggerlo, allora la vita stessa non valeva la pena di essere vissuta. Provocazioni estreme, certo; ma è vero che la sua equazione letteratura-vita, con il corollario dell’accettazione della complessità (quale esistenza, infatti, è davvero semplice?), ha comportato nei decenni passati un fiorire di letture, spesso contrastanti, che nessuna altra opera ha incoraggiato.

Nora Barnacle, James Joyce e il loro avvocato a Londra, nel giorno del matrimonio il 4 luglio 1931. Collezione della State University di New York, Buffalo. (Foto da Fine Art Images/Heritage Images/Getty Images)

Per Joyce il mondo della letteratura, a cui non si fregiava di appartenere – e qui ha ragione Gabriele Frasca nel dire che «gioiosamente» ne fuoriesce – era stato in passato un continuo irretire, un continuo tentare vie consolatorie, lenitive, un adeguarsi alle situazioni. E invece, la scrittura deve essere rivoluzionaria, ribaltare le convenzioni linguistiche, culturali, filosofiche. Farci sentire a nostro agio nell’universo, ma anche continuamente esuli. Deve sovvertire le posizioni di potere, dire al potere che non ci avrà mai.

In Ulysses, opera universo per eccellenza – e lo sarà ancor di più il successivo Finnegans Wake – vengono messi alla prova e confutati, persino il principio di non contraddizione e il corollario del terzo escluso. Il Tertium non datur diviene in Joyce Tertium Datur! E non solo. Nei suoi libri abbiamo tutto e il contrario – wildianamente, ma anche alla maniera di Giordano Bruno, mentore di Joyce per eccellenza. E se l’abbiamo, è per accettazione, per accoglimento e integrazione democratica dei necessari contrasti che animano il nostro vivere.
E allora, ogni lettura di un grande testo del genere, oggi, non deve essere accomodante: è infatti vero, come diceva il grande biografo Richard Ellmann sessanta anni fa, che dobbiamo ancora apprendere a divenire contemporanei di Joyce. Ma divenirlo significa al contempo essere contemporanei del passato come del futuro, in un continuum quantistico e spazio-temporale che parte da quella mente medievale che Joyce possedeva – e qui va reso omaggio a Eco – alle visioni futurologiche, blakeane, che proprio da Ulysses si dipartono, per poi investire l’universo einsteniano del Wake, un libro in cui, come è stato detto, ognuno è sempre qualcun altro.

Ma ognuno era qualcun altro anche in Ulysses. Lo spiega bene Stephen Dedalus nel nono episodio, allorché ricorda di dovere una sterlina allo scrittore, mistico ed economista AE, salvo poi, ripensandoci, rendersi conto di averla presa in prestito alcuni mesi prima, e quindi sostanzialmente di non dover più restituirla: è stato un altro, un’altra emanazione del sé, non lui, a farsela prestare.

È CON QUESTO SPIRITO che guarda avanti per guardare indietro che bisogna avvicinare quello che Joyce stesso definì il «maledettissimo romanzaccione». Senza celebrazioni da museo, senza riverito rispetto, ma con la spontaneità di una prima lettura, di una nuova traduzione mentale (e in questo l’Italia ha un vero primato: annovera il maggior numero di traduzioni dell’Ulisse al mondo!)

CELEBRARE L’ANNIVERSARIO di un libro è importante e rischioso. Il rischio maggiore è quello di eternare indebitamente un’opera, cosa che i libri di Joyce non meritano. Joyce scriveva per cambiare i nostri immaginari mondi (worlds) con le sue parole (words) ben sapendo che la differenza tra i due lemmi è una consonante, la «L» di lingua e di letteratura. Le sue parole divengono nostre, perché Ulysses, come ricordava Burgess, è un libro che ci riguarda tutti; e Joyce, come riteneva Borges, è un autore che ci salva. Non ci salva per consolarci, per redimerci o per accogliere la nostra confessione. Ci salva perché ci fa comprendere che siamo esseri cangianti, mutevoli, e che il cambiamento è nella nostra natura umana.

«ULYSSES» CI INSEGNA che l’identità – nazionale soprattutto, ma anche culturale o connotata da qualunque altro aggettivo che anziché spiegarla finisce per complicarla – è una parola ambigua, sbagliata, perché non parla di esseri identici, di pulsioni identiche. Parla di bugie, di menzogne propagandistiche. Di semplificazioni inaccettabili. L’opera di Joyce ci consegna la lezione che siamo noi gli altri: siamo noi quelli che ancora non sappiamo di essere.