«Guarda questo deserto, Yeruldelgger. È il nostro paese. Grandioso. Severo. Violento. Tutti credono che siamo nomadi bonari nei nostri spazi sterminati, ma in realtà lottiamo contro di esso giorno e notte. A renderci forti è proprio questo paese crudele che c’insegna a combatterlo e a rispettarlo sin dalla nostra più tenera infanzia».
Con La morte nomade (Fazi, pp. 414, euro 18,50), si compie l’ultimo, definitivo capitolo delle indagini dell’ex commissario della polizia di Ulan Bator, Yeruldelgger, tra i protagonisti più originali del nuovo noir europeo. Come uno sbirro d’altri tempi che si affida però in questo caso ai consigli degli sciamani quanto al suo fiuto di investigatore, muovendosi tra trafficanti locali di ogni sorta e ambigui operatori internazionali, il poliziotto-nomade vorrebbe solo dare un senso a ciò che sta accadendo in Mongolia, e che fatica ogni giorno di più a comprendere, prima di ritornare a piantare la sua tenda in mezzo al deserto.

Creata nel 2013 da Patrick Manoukian, in arte Ian Manook, scrittore, giornalista ed editore nato in una famiglia della diaspora armena nella periferia di Parigi nel 1949, la serie di Yeruldelgger (anche i precedenti Morte nella steppa e Tempi selvaggi sono editi nel nostro paese da Fazi), esplora i confini della letteratura di genere, incrociando stili, riferimenti e suggestioni in una miscela dal fortissimo impatto narrativo. Non a caso è alla base di un autentico caso letterario in Francia dove ha venduto oltre cinquecentomila copie.

Ian Manook sarà tra gli ospiti del festival Libri Come che si aprirà domani all’Auditorium Parco della Musica di Roma. Sabato 17 marzo, alle ore 12, presso lo Spazio Risonanze, lo scrittore dialogherà con Sandrone Dazieri.

Nella letteratura poliziesca lo spazio è sempre complice dei crimini che vengono perpetrati, dai «delitti della camera chiusa» dei precursori del giallo alla «giungla d’asfalto» del noir. Con le indagini del commissario Yeruldelgger nelle steppe della Mongolia ha creato il polar nomade?
Sento che è una definizione che mi appartiene. E questo non solo perché al centro di questi romanzi c’è un popolo ancora in parte nomade, ma anche perché definisce il mio approccio alla scrittura. Ho una cultura noir molto generica, diciamo che mi limito ai classici, e guardo più alle serie tv americane e scandinave per trarre ispirazione. Però tutto ciò che scrivo risente profondamente, e prima di tutto, del mio amore per il viaggio, dei luoghi che ho visto, dei posti in cui mi sono perso. In Francia c’è chi ha parlato di «gialli etnografici» a proposito dei miei romanzi, ma in realtà non c’è niente di scientifico o studiato in quanto scrivo, ci sono solo la passione e il gusto di seguire un itinerario ramingo che mi porta a incontrare i luoghi e le persone.

In quest’ultimo capitolo della trilogia torna il personaggio di Zarzavadjian, con «la sua faccia da ragazzaccio armeno». La propensione errante dei suoi romanzi ha a che fare con quelle radici armene che lei spiega «di portare sempre con sé» e che vivono nella diaspora?
La cultura della diaspora ha definito il mio sguardo sul mondo, il modo in cui ho vissuto, pensato, scritto. Dietro di me c’è quella nozione che gli armeni condividono con altri popoli che hanno dovuto fare, piuttosto che di un luogo preciso, del mondo intero la loro patria. Fino a ora non ho mai scritto nulla al riguardo, ma adesso finalmente ho proposto al mio editore, Albin Michel, una saga che muove dall’Armenia per seguire poi la diaspora attraverso mille rivoli. Perché il problema non è avere una terra su cui mettere delle bandiere, ma la dignità e il riconoscimento per la propria storia e cultura. In questo senso, è vero, in Mongolia la tradizione è ovunque, ma sono radici che si spostano in continuazione…

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Anche per i personaggi dei suoi romanzi la dimensione nomade appare in realtà più come una sorta di condanna che come una scelta deliberata. Siamo legati a un’immagine da cartolina della Mongolia?
Quando si pensa al nomadismo si immaginano delle persone gioiose che si muovono liberamente in vasti spazi naturali. Ma la realtà è spesso ben diversa. Quale che sia la parte del mondo di cui parliamo, si tratta piuttosto di una tecnica di sopravvivenza in un ambiente ostile. Le popolazioni si spostano di continuo non per piacere, ma perché vivono in luoghi, anche se magari di sconcertante bellezza o forza naturale, dove non possono fermarsi a lungo, pena, talvolta, la messa in discussione della loro stessa sopravvivenza. Per questo le tradizioni hanno un ruolo così importante presso tutti i popoli nomadi: prima che un modo di portare con sé le proprie radici, sono delle regole di sopravvivenza quotidiana che vanno osservate minuziosamente.

Oggi, a minacciare questi nomadi che quando non si spostano nella steppa e nei deserti piantano le loro yurte (tende) nelle bidonville che circondano Ulan Bator, sono però sempre più spesso la corruzione della politica locale, gli interessi delle multinazionali, una modernità che ha il volto dello sfruttamento. Qualcosa è cambiato?
I mongoli sono circa 3,5 milioni. Ancora vent’anni fa solo una minoranza viveva nella capitale, mentre oggi metà della popolazione sopravvive, in condizioni sempre più precarie, in queste zone fatiscenti di Ulan Bator. La Mongolia fu tra i primi paesi a finire nell’orbita dell’Urss, decine di migliaia di soldati russi furono stanziati qui e furono vietate, oltre alla religione, la scrittura e l’uso dei nomi di famiglia. Poi, dopo la caduta del Muro, molti ex dirigenti filo-sovietici, si sono trasformati in apostoli del neoliberismo e hanno cercato un arricchimento facile con ogni mezzo. È stata introdotta la nozione di proprietà della terra, estranea al mondo nomade, che ha consentito agli speculatori di accaparrarsi appezzamenti sempre più grandi, poi rivenduti o concessi per lo sfruttamento alle compagnie minerarie straniere (carbone, oro e stagno) e alle multinazionali. Il risultato è un mondo che in pochi anni ha subito cambiamenti drammatici e irreversibili che hanno favorito il crescere dell’emarginazione come di vere e proprie forme di gangsterismo. Il noir dei miei libri mostra questa deriva della società mongola.

Eppure proprio Yeruldelgger che nel corso della trilogia ha dapprima cercato di fare ricorso alla sapienza tradizionale per combattere il crimine, per poi sprofondare egli stesso in un furore vendicativo e sanguinoso, in «La morte nomade» appare ai giovani mongoli come una sorta di rivoluzionario in grado di cambiare le sorti del paese. È solo un auspicio?
In realtà, esistono dei movimenti che si battono per difendere il patrimonio naturale e le riserve d’acqua dall’inquinamento derivante dalle attività estrattive. Qualche anno fa hanno anche inscenato una manifestazione di protesta, indossando i costumi tradizionali e entrando a cavallo a Ulan Bator per scagliare qualche freccia contro il palazzo del governo. Quanto a Yeruldelgger, non si tratta solo di un ex commissario di polizia che indaga per mio conto in questa realtà complessa e sfaccettata. Per me, questo personaggio incarna la Mongolia stessa e i pericoli verso cui sembra correre inesorabilmente. All’orizzonte, per questo paese, ci sono il rischio di una catastrofe, di una qualche forma di autodistruzione, o la seppur remota possibilità di una redenzione: quella che Yeruldelgger cerca all’inizio del romanzo fuggendo nel deserto del Gobi per piantare la sua yurta in mezzo al nulla come fanno da sempre i nomadi di queste parti per tentare di fare pace con la loro anima.