Detenuto da mesi come straniero irregolare vuole tornare a casa ma non può. Sembrerebbe la storia di un migrante trattenuto in Italia in un Centro di permanenza per il rimpatrio (Cpr), invece è quella di un italiano finito dietro le sbarre nel Regno Unito. Giuseppe M. è stato arrestato a Londra nel novembre 2019 per un giro di francobolli contraffatti. Non ha più riavuto la libertà, nonostante abbia finito di pagare il suo conto con la giustizia sei mesi fa.

Il 21 agosto scorso, infatti, è stato condannato a 3 anni e 3 mesi per frode. La legge del Regno Unito prevede che in casi come questo si sconti in carcere la metà del tempo e sul resto valga la pena sospesa. A Giuseppe, dunque, toccavano 19 mesi e 2 settimane. Erano scaduti a fine giugno, ma non è bastato a fargli ottenere il rilascio. Terminata la vicenda penale è iniziata l’odissea della detenzione amministrativa.

Mentre era in carcere, infatti, il Regno Unito è uscito dall’Ue. Nonostante avesse vissuto a Londra per 10 anni, lavorando regolarmente, il cittadino italiano si è ritrovato senza permesso di soggiorno e con passaporto e carta d’identità scaduti. Un clandestino. Per questo l’1 settembre, dopo un colloquio con una funzionaria dell’ufficio immigrazione, ha firmato una richiesta di rimpatrio volontario. In quel momento si trovava nella prigione di massima sicurezza di Belmarsh, a sud-est della capitale britannica, dove lo avevano trasferito a giugno 2020 e dove i detenuti sono chiusi in celle singole per 23 ore e mezzo al giorno.

A differenza dell’Italia, in Uk la detenzione amministrativa può svolgersi in una prigione comune se segue una condanna penale. Il sistema ha anche un’altra peculiarità: non prevede limiti di tempo. Così a fine settembre Giuseppe inizia ad allarmarsi e tenta di contattare l’ufficio immigrazione. Il 30 una guardia penitenziaria gli fa firmare per la seconda volta lo stesso foglio per il rimpatrio. Nei giorni seguenti cerca un funzionario che stia seguendo il suo caso. Non lo trova. Il 12 ottobre viene trasferito a Yarl’s Wood, centro di espulsione per stranieri della città di Bedford. Giuseppe è nella stessa condizione dei migranti irregolari che in Italia e negli altri paesi Ue finiscono nei Cpr. Ma c’è una differenza: vuole tornare a casa e ha chiesto il rimpatrio volontario.

Il centro di rimpatrio di Yarl’s Wood, foto di Oliver White/Yarlswood Idc via Wikipedia

Nei giorni seguenti lo contatta un funzionario del ministero degli Interni britannico. Risponde alle stesse domande che tempo prima gli aveva posto la donna dell’ufficio immigrazione. Alla terza richiesta di firmare il foglio per il rimpatrio inizia a perdere la pazienza. Successivamente rifiuta il trasferimento in un altro centro per migranti. «Ho detto che mi sarei spostato solo per rientrare in Italia. Ho scontato la mia condanna, ma sono intrappolato qui. E non capisco perché», racconta Giuseppe al manifesto. Invece di tornare a casa, però, finisce in isolamento.

Dal telefono della cella, intanto, prova ripetutamente a chiamare il consolato italiano a Londra. Senza ricevere risposta. Attraverso un’associazione che fornisce sostegno ai migranti reclusi riesce a nominare un’avvocata e dopo una telefonata al nostro ministero degli Esteri viene finalmente contattato dal consolato. Sentito dal manifesto il ministero afferma di «seguire sin dall’inizio e con la massima attenzione» il caso e che il consolato «ha dato piena disponibilità all’emissione del documento necessario a consentire il rientro in Italia del connazionale, non appena questi deciderà di farlo».

Giuseppe, però, ribadisce di aver firmato la richiesta di rimpatrio tre volte, la prima tre mesi e mezzo fa. Lo stallo potrebbe essere dipeso da errori burocratici delle autorità britanniche. Ieri la legale che lo difende gli ha fatto sapere che l’ordine di deportazione è stato finalmente firmato dagli uffici del ministero degli Interni di Londra. Sembrerebbe il tassello che mancava, ma al momento non ci sono certezze sulla data del rientro. «Chiederò il risarcimento per l’ingiusta detenzione, ma ora voglio solo tornare a casa», dice Giuseppe.

Da inizio dicembre il caso è seguito anche dalla Coalizione italiana libertà civili e immigrazione (Cild) che ha chiesto spiegazioni a consolato e ministero degli Esteri senza però ottenere risposta. Secondo l’avvocato Gennaro Santoro (Cild): «La vicenda del nostro connazionale è lo specchio di ciò che accade ogni giorno in Italia ai cittadini stranieri privi di documenti. Il sistema della detenzione amministrativa deve essere ripensato a livello europeo. Non funziona».