Sul finire del 1959 si conclude anche Un, due, tre a cui Ugo Tognazzi e Raimondo Vianello avevano dato vita fin dal gennaio 1954, negli stessi anni in cui nasce la televisione italiana con un solo canale rigorosamente in bianco e nero. Il giorno prima in occasione di una serata ufficiale alla Scala in onore del generale De Gaulle, il valletto sbaglia i tempi nell’accostare la sedia provocando lo storico scivolone in diretta del presidente della repubblica Giovanni Gronchi.

La tentazione è troppo forte per resistere all’idea di riprendere a botta calda l’avvenimento nella rubrica dedicata alla posta degli spettatori, in cui di solito stanno seduti ma questa volta rimangono in piedi. Naturalmente la trasmissione è in diretta e nessuno sa cosa sta per succedere. Subito dopo il balletto, tocca ai due sciagurati. Ugo cade platealmente per terra, mentre Raimondo dice la battuta «Ma chi ti credi di essere?», pensando che l’avrebbero capita in pochi. Invece il teatro viene giù dalle risate e ne nasce un affare di Stato, segnando di lì a poco la cancellazione del programma. Un, due, tre, la migliore rivista televisiva italiana degli anni Cinquanta, nel corso di un’ottantina di puntate aveva fatto la parodia dei programmi televisivi, dei personaggi più popolari, dei film e degli spettacoli di successo, dal teleromanzo alle canzoni, dalle inchieste ai varietà, dai mezzi busti del telegiornale ai campioni dello sport. Senza rete, il sanguigno Tognazzi e l’etereo Vianello rifanno il verso a Juliette Gréco, a Gino Bartali, a Mario Soldati a caccia di cibi genuini, a Gregorio il gregario che arriva sempre ultimo, al fabbricante artigianale di stuzzicadenti ricavati da un enorme «troncio» in un infinito sfarfallio di trucioli. Quanto più la presa in giro è irriverente, vivacissima la caricatura, il travestimento oltraggioso, tanto più scatta la complicità con il pubblico, che segue la trasmissione per ben sei stagioni senza mai mostrare segni di stanchezza.

Ugo Tognazzi prima della televisione aveva percorso da un capo all’altro i teatri della penisola con varie compagnie di rivista, ottenendo i suoi primi successi, accanto alle strepitose Elena Giusti, Lauretta Masiero, Dorian Gray, su testi di Giulio Scarnicci e Renzo Tarabusi, che erano stati gli autori di Un, due, tre. Negli stessi anni avviene anche l’approdo al cinema che dal ’50 al ’60 dà vita a una quarantina di film firmati da Mario Mattoli, Giorgio C. Simonelli, Carlo Ludovico Bragaglia, Camillo Mastrocinque, Steno, accanto a Walter Chiari, Raimondo Vianello, Carlo Campanini, Mario Carotenuto, Nino Taranto, Totò, Peppino De Filippo. Un lungo apprendistato – da I cadetti di Guascogna (1950) a Pugni, pupe e marinai (1960) – con un gruppo di artigiani all’antica italiana che, disponibili ai vari generi in auge nelle diverse stagioni del made in Italy più popolare e stracciato, non nascondono la loro predilezione per il comico e la parodia. Si fatica a distinguere un titolo dall’altro perché nel decennio è diffusa la convinzione che la grande abilità del regista di film brillanti consiste soprattutto nel tenere ben ferma la macchina da presa in modo che i fucinatori d’ilarità si possano scatenare.

Nel regno dello sketch, della battuta malandrina, della gag ben orchestrata, della mimica accattivante, rivive lo spirito dell’avanspettacolo con i suoi acri umori popolareschi, i volti inconfondibili dei caratteristi, la schietta carnalità delle belle di turno, segnando la fase del cinema italiano dallo spettacolo leggero ormai in crisi alla omologazione della neonata tv che mette i mutandoni alle ballerine. Sono per lo più film modesti, ma bastano un guizzo, un’impennata – Ugo e Raimondo che si guardano di sottecchi in divisa da carcerati (Noi siamo due evasi), Walter e Ugo che si pavoneggiano in costumi da antichi romani (I baccanali di Tiberio), ancora Ugo e Walter alle prese con enormi boccali di birra al banco del saloon similwestern (Un dollaro di fifa), Ugo che s’impegna compiaciuto nella cyclette sotto lo sguardo scettico del maggiordomo Mario Scaccia (Femmine di lusso) – per capire che stiamo attraversando una stagione più vivace di quanto solitamente si creda. Il cinema comico traghetta il vivaio di esperienze e scritture del varietà e dei giornali umoristici, ma entra in crisi quando di lì a pochi anni la commedia all’italiana, conclusa la vampirizzazione di attori e sceneggiatori, rivendica la sua autonomia e punta ambiziosamente alla serie A.

Quando Il federale (1961) di Luciano Salce apre la stagione più alta e significativa dell’attore, la sua personalità è già in parte definita nel segno di una comicità in cui la sottolineatura espressionista convive con l’impassibilità quasi astratta. Sono in pochi quelli che vi intravedono la nascita di un attore, di uno straordinario attore in potenza, che può aspirare a essere un grande comico. Il personaggio di Primo Arcovazzi – il gerarca che deve portare a Roma un prigioniero d’eccezione, il professore antifascista Georges Wilson – s’impone nell’immaginario collettivo, nonostante le reiterate accuse di qualunquismo impediscano ai recensori di vedere la novità del film spesso bollato come «squallida farsaccia».

Sin da questo primo titolo l’incontro con Salce si segnala come uno dei più promettenti perché il regista romano non si prende mai sul serio, ride di tutto e di tutti. Caustico e beffardo, quando può sterza nel surreale. Il sodalizio aiuta a capire meglio la collocazione dell’attore in questa fase della commedia all’italiana di inizio decennio in cui avvengono anche i primi incontri con Dino Risi e Mario Monicelli, destinati a riproporsi nel corso delle stagioni successive animando la vitalità gaglioffa e contraddittoria di un megagenere abituato a praticare il cannibalismo. La rivisitazione alla carta vetrata del fascismo più becero, ottuso e irredimibile di Il federale cede nei film di poco dopo, da La voglia matta (1962) a Le ore dell’amore (1963), alla raffigurazione del quarantenne dinanzi alla disinvolta spregiudicatezza delle nuove generazioni, incapace di vivere in un mondo che credeva fatto a sua misura e invece cammina più in fretta di lui. L’italiano euforico del boom economico viene colto con amara ironia in tutta la sua inadeguatezza nei confronti dei sentimenti e delle responsabilità.

L’incontro con Dino Risi – da La marcia su Roma (1962) a Dagobert (1984) – trova il suo momento paradigmatico in I mostri (1963), quasi un abbecedario della comicità all’insegna della cattiveria più travolgente in una gara attoriale in cui il gioco sottile di Tognazzi ha la meglio sull’improntitudine di Gassman. Se Straziami ma di baci saziami (1968) è il più curioso dei titoli sceneggiati da Age e Scarpelli, La stanza del vescovo (1977) è forse il più intenso del periodo Benvenuti-De Bernardi con una performance di Tognazzi-Orimbelli di grande spicco, in bilico tra verità e menzogna, cinismo e passione, undestatement e eccesso: spregevole ma simpatico come non riesce neppure al grande Sordi, geniale nella sgradevolezza. Sta a sé In nome del popolo italiano (1971) – forse il film più esplicitamente politico del regista milanese -, che vede contrapposti il giudice Bonifazi, magistrato rigoroso e integerrimo, e l’industriale Santenocito, brillante ma senza scrupoli, uno scontro ideologico tipico della vena sociale della migliore commedia di costume, ma anche un duello di mattatori, vinto ai punti da Tognazzi con un personaggio ironico e severo, aggressivo e irriducibile nella sua ferma decisione di far trionfare la giustizia.

Non meno fertile il rapporto con Mario Monicelli che, dopo la sbandata farsesca di Vogliamo i colonnelli (1973), irrisolto sul piano narrativo ma stimolante nel legame con l’attualità politica, tocca un momento di grande equilibrio in Romanzo popolare (1974). L’operaio Tognazzi-Basletti vi fronteggia il dramma del tradimento, che mette in crisi le sue conclamate idee moderne, con un senso profondo di pudore e di dolorosa partecipazione. Spetta alla saga di Amici miei (1975) e di Amici miei atto II (1982) – Amici miei atto III (1985) è firmato da Nanni Loy – il merito di fornire all’attore una delle occasioni più straordinarie dell’intera carriera con il personaggio ormai proverbiale del conte spiantato Lello Mascetti che stenta a mantenere moglie e figlia, interpretato con sublime leggerezza.

L’incontro con l’anarchico Marco Ferreri, e cioè con uno degli autori più originali del panorama italiano e non solo italiano di allora, esce dai moduli consueti della commedia con cui talvolta s’incontra per animare un gruppo di personaggi tra i più singolari dell’attore, da L’ape regina (1963) a La donna scimmia (1964), via via fino a La grande abbuffata (1974), nei quali i rapporti tra uomo e donna, le distorsioni della normalità e della diversità, i rituali ossessivi del cibo e del sesso, le funebri tentazioni dell’annientamento totale trovano attraverso la metafora e il grottesco le vie di una rappresentazione lucida, disincantata, intransigente. Sono i protagonisti di film come questi che permettono a Ugo Tognazzi di raggiungere i livelli più alti nel suo mestiere di attore. Sempre in bilico tra concretezza sanguigna e spiazzante onirismo, il grande commediante pensa con il corpo, mettendo in scena con il distacco che non esclude la partecipazione l’inedita e dolente fisiologia delle passioni in assoluta controtendenza nei confronti del cinema dell’epoca.

La fecondità dei rapporti più duraturi con gli autori che hanno accompagnato la sua maturazione d’interprete è fuori discussione. Ma non mancano le prove isolate, le improvvise sintonie con altri registi in una gamma di congenialità e di differenze, altrettante spie della irrequietezza dell’attore che non sia adagia sui risultati raggiunti o sui rapporti consolidati ma tenta nuove strade. Spesso sono occasioni fortunate a cui si devono film particolarmente riusciti come La vita agra (1964) di Carlo Lizzani, un’acuta incursione nelle contraddizioni del boom sullo sfondo milanese dei Sessanta. Io la conoscevo bene (1965) di Antonio Pietrangeli, dove l’esibizione del guitto d’avanspettacolo nella festa dei neoricchi diventa la sua caratterizzazione più amara. Una questione d’onore (1966) di Luigi Zampa, in cui nello scenario sardo più ombre che luci l’attore s’impone nel ritratto di un italiano diseredato fatto di ingenuità e di rassegnazione, di umorismo e di passionalità: una delle sue interpretazioni più significative. L’immorale (1967) di Pietro Germi, che, nonostante sia un film non del tutto risolto soprattutto per le incertezze del regista, offre a Ugo, il violinista travolto dalla schizofrenia della sua vita sentimentale, l’occasione di giocare su una gamma di sfumature drammatiche di singolare e rara intensità. Nell’anno del Signore (1969) di Luigi Magni, dove nel personaggio di fianco del cardinale Rivarola l’attore s’impone con la recitazione sotto le righe nel segno di una sottile ironia. Il commissario Pepe (1969), l’esordio nella regia di Ettore Scola, che deve molto all’abilità con cui Tognazzi si muove nell’ambiente della provincia, con i suoi segreti e i suoi pregiudizi. Venga a prendere il caffè… da noi (1970) di Alberto Lattuada, squallida ma incandescente epopea degli eccessi sessuali e gastronomici resa dall’attore con un vitalismo sornione.

Sta a sé Splendori e miserie di Madame Royale (1970) di Vittorio Caprioli, dove Tognazzi si misura con l’universo particolare del travestitismo, dosando partecipazione umana e distacco ironico in una pittura sapientissima in equilibrio tra acre malinconia e tenerezza amara. Il successo favorisce le ambizioni dell’attore, che si prova nella regia con cinque film tra i quali spiccano Il fischio al naso (1967), da un racconto di Dino Buzzati, e I viaggiatori della sera (1979), dal romanzo di Umberto Simonetta, nei quali la sensibilità dell’interprete si muove nell’ambito della fantascienza sociale non priva di mordente. Nello stesso periodo l’incontro con Federico Fellini per Il viaggio di G. Mastorna, di cui avrebbe dovuto essere il protagonista, incoraggia la speranza dell’attore di coronare la sua carriera nel nome del grande riminese, ma sarà presto delusa per il clamoroso fallimento del progetto.

Gli anni Ottanta si aprono con La tragedia di un uomo ridicolo (1981) di Bernardo Bertolucci, implacabile radiografia dei misteri italiani con un corposo personaggio di industriale parmense costruito sulla dimensione padana e terragna di Tognazzi, che gli procura il premio al Festival di Cannes per la migliore interpretazione maschile. Un traguardo importante a cui poco dopo guarda con amarezza quando nel cinema italiano sembra improvvisamente un corpo estraneo, lontano dal set. Il ritorno al teatro gli dà grandi soddisfazioni a partire dai Sei personaggi in cerca di autore che nell’86 Giorgio Strehler gli chiede di recitare in francese alla Comédie Française, una prova altissima che incanta il pubblico parigino. Nell’88 è la volta di L’avaro con Mario Missiroli e nell’anno successivo di Mr. Butterfly con John Dexter, che va in scena solo a Milano: un trionfo. Ma la malinconia piega verso la depressione nel periodo più triste e solitario di una biografia all’insegna della vitalità onnivora, esuberante, generosa. S’incupiscono anche gli affollati appuntamenti famigliari nella casa di Velletri. Gianmarco Tognazzi ricorda uno degli ultimi capodanni festeggiati tutti insieme con la famiglia Gassman: «Mio padre e Vittorio passarono tutta la sera in depressione totale, a piangere in camera da letto e a fare a gara a chi dei due era più depresso, sino a quando non hanno cominciato a ridere della loro depressione».