Il Consiglio dell’Unione Europea ieri ha dato il via libera finale alla direttiva sul salario minimo già approvata anche dal Parlamento Europeo. Entrerà in vigore il ventesimo giorno successivo alla sua pubblicazione nella Gazzetta ufficiale europea. Gli Stati membri che non hanno mai adottato questa misura, come l’Italia e altri cinque paesi su 27, avranno due anni per recepirlo nel diritto nazionale. Quello che al momento sappiamo dagli annunci fatti da Giorgia Meloni nell’ultimo anno è che la fissazione di un minimo salariale non rientrerà nei programmi del suo governo nel prossimo biennio.

«È UNO SPECCHIETTO per le allodole – ha detto la presidente del Consiglio in pectore il 30 agosto a Cosenza – Vogliono [Pd e Cinque Stelle, ndr.] fare la legge ma in Italia la gran pare di chi ha un lavoro dipendente è coperto da un contratto di lavoro nazionale con il salario minimo già garantito». «È un’arma di distrazione di massa rispetto alla precarizzazione e alle mancate tutele per i lavoratori autonomi e i non garantiti – ha aggiunto a Massa Carrara il 6 giugno scorso – La soluzione migliore sarebbe quella di tagliare il cuneo fiscale circoscrivendolo al lato del lavoratore».

DOPO QUATTRO ANNI di dibattiti astratti, durante i quali Pd, Cinque Stelle e altre forze hanno fallito clamorosamente anche su questo, dovremmo avere esperienza sufficiente per riconoscere la strumentalità della posizione anche dell’estrema destra. Pensare che il salario minimo legale orario non serva alla tutela dei «non garantiti» – coloro che non hanno un contratto nazionale di riferimento – è una falsità. Non solo li tutelerebbe di più (si parla di almeno 3 milioni di persone), ma sarebbe una leva per estendere la contrattazione che non c’è. Senza contare che questo tipo di salario gioverebbe ai contratti che hanno minimi inferiori a quello legale. Per quanto riguarda il lavoro autonomo contrapposto da Meloni al salario minimo ai precari dipendenti, si potrebbe pensare a una misura, certo diversa, come l’«equo compenso», oggetto di speculazioni metafisiche che hanno prodotto tavoli tecnici e non misure effettive comunque inconsistenti. Il problema del reddito e del salario è complessivo, e dialettico.

NEL DISCORSO DI MELONI va notata la contrapposizione tra il salario minimo e la contrattazione. Fa il verso a una posizione analoga di molti sindacati italiani, risultato di una miopia culturale. Come ha dimostrato il caso tedesco, comparabile a quello italiano, i minimi salariali possono costituire una base per concludere negoziati migliorativi nella contrattazione. La questione è stata accettata dai sindacati riluttanti. «Il primo ottobre – ha ricordato ieri la Confederazione europea dei sindacati (Ces) – la Germania ha aumentato il salario minimo da 10,45 euro l’ora a 12 euro, con un aumento del 15% per 6,64 milioni di lavoratori». Con tutte le differenze è un orientamento che smentisce i dubbi sollevati in Italia.

ANCHE LA CONTRAPPOSIZIONE tra un intervento sul salario minimo e il taglio del cuneo fiscale è infondata. Certo, servirebbe una volontà che non c’è, ma le due misure potrebbero non essere contrapposte in un paese con bassi salari e alto cuneo fiscale e contributivo. Un salario minimo congruo, più alto dei 9 o 10 euro lordi chiesti da Pd o 5S, contrasterebbe la povertà nel lavoro; un taglio del cuneo fiscale sul lato dei lavoratori aumenterebbe il potere di acquisto. A tutto questo i governi precedenti hanno preferito bonus e «una tantum». Con l’inflazione, e il caro energia, il prossimo potrebbe non investire risorse scarse e fare pagare la crisi a chi lavora e non lavora. I pregiudizi e le ideologie si avvitano con la crisi sociale