A sbloccare la situazione, scongiurando all’Unione europea una nuova figuraccia, è stata la Grecia. Quando ormai l’ennesimo vertice sulla crisi dei profughi nei Balcani era a un passo dalla rottura, Atene ha accettato di aumentare le sue capacità di accoglienza rispetto ai diecimila posti attuali. Era quello che aspettavano tutti, un sì che ha permesso al minivertice convocato domenica dal presidente della commissione europea Jean Claude Juncker di chiudersi potendo affermare di aver trovato un accordo.
Quella raggiunta è un’intesa di emergenza, in tutti i sensi. Sia perché conquistata mentre a Bruxelles arrivava già l’eco della vittoria ottenuta in Polonia della destra anti-Ue e anti-immigrati del PiS di Jaroslaw Kaczynski. Ma soprattutto perché decine di migliaia di uomini, donne e bambini in marcia lungo la rotta balcanica si trovano già da settimane esposti al freddo e alla pioggia. Sono sotto gli occhi di tutti le immagini dei settemila profughi che in Slovenia marciano incolonnati attraverso i campi, diretti verso il confine con l’Austria. Trovare loro una sistemazione decente era quindi il minimo che l’Europa potesse fare. «E’ inaccettabile che nel 2015 la gente sia lasciata dormire nei campi e attraversare fiumi con l’acqua sino al petto in temperature glaciali» ha spiegato Juncker.
L’accoglienza dei profughi è dunque uno dei 17 punti del piano approvato. E’ prevista la realizzazione di 100 mila nuovi posti dove alloggiare i migranti, 50 mila dei quali in Grecia e altrettanti nei Balcani. I dettagli del piano sono ancora in via di definizione, ma già si sa che di coloro che si fermeranno in Grecia 20 mila saranno gestiti dall’Unhcr, l’Alto commissariato dell’Onu per rifugiati, che prenderà in affitto da privati alberghi e case vacanze, ma utilizzerà anche scuole, palestre, caserme e tende riscaldate.
Proprio la Grecia è stata a lungo sul banco degli imputati, accusata dagli altri partecipanti al vertice di non fare nulla per fermare i migranti diretti verso il nord Europa. Un’accusa alla quale Atene ha replicato ricordando come la vera porta dei Balcani sia la Turchia, che però non è stata neanche invitata a Bruxelles. Non a caso il controllo dei confini esterni dell’Unione è un altro dei punti cardine dell’accordo di domenica. Per tutti i partecipanti (Germania, Slovenia, repubblica Ceca, Polonia, Austria, Olanda, Lussemburgo, Croazia, Ungheria, Romania e Bulgaria più Serbia, Macedonia e Albania) se infatti è importante offrire un riparo ai profughi, altrettanto lo è fermarli impedendogli di proseguire nella loro marcia. E per questo è necessaria una gestione più rigida dei flussi. Verranno quindi rafforzate tutte le missioni di Frontex già in atto ai confini sia marittimi che terrestri, ma verrà anche attivato uno scambio di informazioni tra tutti i paesi sul numero di migranti in entrata e in uscita. Nessuno potrà quindi permettere ai migranti di dirigersi verso il confine di uno Stato vicino senza un accordo preventivo. E nessuna accoglienza, infine, per chi rifiuta di farsi identificare. «Senza registrazione, nessun diritto», ha sentenziato Juncker. Sarà la stessa Commissione Ue a verificare ogni settimana il funzionamento dell’accordo.
L’idea che Bruxelles sta cercando di mettere nuovamente in campi è di impedire che alle frontiere interne si vedano scene come quelle dei giorni scorsi, con i migranti bloccati dalla polizia e costretti a ore, se non a giorni di attesa. Fermarli negli hotspot, secondo Juncker, permetterebbe poi di procedere ai ricollocamenti direttamente da dove si trovano. Adesso resta però da vedere se e come i paesi dell’est daranno seguito agli impegni presi. Grecia a parte, dove si sa che i migranti saranno divisi tra isole e terraferma, fino a ieri sera non era ancora chiaro dove, lungo la rotta balcanica, troveranno posto le nuove strutture. E con l’aria che tira in Europa, le brutte sorprese sono sempre possibili.