In queste ore di grande confusione a Londra, la Ue sta dando prova di grande sangue freddo. Mentre Theresa May è sommersa a Westminster dalle urla dei deputati, gli europei mantengono la calma e ufficialmente mantengono in piedi il percorso previsto: dopo l’accordo sul divorzio raggiunto tra May e il negoziatore Ue Michel Barnier martedi’, con un testo di più di 500 pagine, poi approvato dai ministri britannici mercoledi’ sera ma esploso già ieri mattina a Londra con dimissioni di ministri, tra cui Mr. Brexit Dominic Raab e il responsabile dell’Irlanda del Nord, Shailesh Vara, oggi gli ambasciatori dei 27 di riuniscono per mettere a punto una dichiarazione politica in vista del vertice sulla Brexit programmato per domenica 25 novembre.

Tutti sanno che questo programma puo’ saltare in aria da un giorno all’altro. Ma la Ue intende prima di tutto affermare che la responsabilità di un fallimento sarà tutta sulle spalle della Gran Bretagna. Di qui le reazioni surrealiste di ieri. Angela Merkel si è detta “molto contenta”, che “dopo negoziati non sempre facili ci sia una proposta” di accordo. Ma la cancelliera ha ricordato che la soluzione peggiore sarebbe “nessun accordo, un’alternativa che dobbiamo sempre tener presente”. In Francia, il primo ministro Edouard Philippe ha parlato di “grande passo” avanti con l’accordo, ma ha ricordato che la Francia deve “prepararsi” a un no deal. Il presidente del Consiglio Ue, Donald Tusk, che ha già messo in guardia su una soluzione “perdenti-perdenti”, ha affermato che Bruxelles è “pronta” anche a far fronte a “uno scenario di assenza di accordo”, ironizzando: “evidentemente la Ue è più preparata a uno scenario di assenza di Brexit”. Il Parlamento europeo ha giudicato l’accordo “il migliore possibile” e ha ricordato che sarà l’assemblea di Strasburgo ad avere “l’ultima parola”. Michel Barnier ha invitato freddamente a “non cadere nell’autosoddisfazione”.

La Ue aspetta che i britannici facciano chiarezza (verso se stessi prima di tutto). La Ue, dal suo punto di vista, ha evitato gli scogli: le sue “linee rosse” sono state rispettate nel testo di accordo, il mercato unico mantiene la sua integrità, la Corte di giustizia resta l’ultima istanza, Londra avrà le mani legate per trasformarsi in una “Singapore sul Tamigi” a colpi di dumping fiscale, sociale, ambientale. In altri termini, la Ue ha evitato sulla carta un “hard Brexit”. In particolare, la Ue ha evitato il ritorno alla frontiera tra le due Irlande. Dublino ha lottato contro il ritorno della frontiera, che avrebbe contraddetto gli accordi di pace del ’98 e minacciato una nuova esplosione della guerra civile. Per Dublino c’è sotto traccia la speranza di una riunificazione dell’isola: per evitare questo scenario drammatico, May ha accettato che non solo l’Irlanda del Nord, ma tutta la Gran Bretagna resti nell’Unione doganale fino a quando non verrà trovata una soluzione “senza frizioni”. L’”assicurazione irlandese” ha finito per irritare la Scozia, che anch’essa come Belfast al referendum del 23 giugno 2016 aveva votato “remain”, creando altra confusione. Per i Brexiteers cade cosi’ la promessa impossibile da mantenere di “take back control”: la Gran Bretagna dovrà rispettare, a tempo indeterminato, l’Unione doganale e le norme Ue per evitare la frontiera terrestre tra le due Irlande (l’opzione di una frontiera all’interno della Gran Bretagna, tra l’Inghilterra e l’Irlanda del Nord è stata considerata un assurdo da Londra).

Le promesse dei Brexiteers si sono rivelate tutte demagogiche. Avevano assicurato che l’accordo con la Ue sarebbe stato trovato in pochi mesi, perché avrebbero negoziato “più con Berlino che con Bruxelles”, nel senso che l’Unione si sarebbe spaccata. Invece, la Ue è rimasta unita e i 27 si sono allineati a Barnier. Londra dovrebbe restare nell’Unione doganale per il periodo di transizione e forse oltre, mentre la relazione futura con la Ue sarà discussa solo dopo la Brexit, prevista il 29 marzo 2019. La Gran Bretagna non diventa subito “paese terzo” con la libertà di concludere accordi commerciali con il resto del mondo, come promesso. I fautori della Brexit hanno cercato di usare i cittadini europei come moneta di scambio, ma alla fine i diritti degli europei residenti in Gran Bretagna (e viceversa) sono garantiti almeno nel periodo di transizione. “Non pagheremo un euro” aveva promesso Boris Johnson quando era ministro degli Esteri: Londra ha accettato invece di versare 45 miliardi come saldo per il bilancio 2014-2020 e dovrebbe continuare a versare contributi probabilmente fino al 2060, per pagare funzionari britannici e pensioni.