«L’Unione europea deve vergognarsi… È una decisione ipocrita che rivela un doppio atteggiamento: si applica solo ad Israele e non a 200 conflitti nel mondo…Non siamo disposti ad accettare il fatto che l’Europa contrassegni il lato attaccato da atti terroristici». Benyamin Netanyahu denuncia discriminazioni, tira in ballo il terrorismo, richiama le recenti violenze a Gerusalemme e via dicendo per condannare l’approvazione, avvenuta ieri anche con appoggio italiano, della “nota interpretativa” alle linee guida pubblicate dall’Ue ad aprile 2013 per l’etichettatura dei prodotti nei territori palestinesi e siriani occupati. In poche parole da oggi in poi, salvo ripensamenti e “congelamenti”, le merci prodotte nelle colonie ebraiche costruite contro leggi e risoluzioni internazionali nei territori arabi che Israele ha occupato nel 1967 – Gerusalemme Est, Cisgiordania, Gaza e Alture del Golan (il Sinai è stato restituito all’Egitto) – non potranno più essere etichettate con il “Made in Israel” se destinate all’esportazione verso l’Europa. Dovranno invece avere la giusta indicazione di provenzienza, per il semplice ed evidente fatto che non sono state prodotte nel territorio israeliano riconosciuto dall’Ue (e dal resto della comunità internazionale). La norma varata è già stata pubblicata sulla versione elettronica della Gazzetta Ufficiale della Ue ed è immediatamente operativa. L’obbligo di etichettatura ricade sull’intera filiera: dal produttore all’importatore fino al dettagliante. Conteranno i documenti doganali di accompagnamento delle merci. Ai singoli Paesi è lasciata la scelta della dizione da adottare, tuttavia dovrà essere indicato che il prodotto in questione viene da un insediamento colonico.

 

Le discriminazioni, i 200 conflitti nel mondo, gli atti di terrorismo, l’antisemitismo esplicito o latente degli europei che ieri richiamavano il premier israeliano, i suoi ministri e quasi tutta la Knesset, non c’entrano proprio nulla. Il punto è che Israele, o gran parte di esso, insiste nel considerare le terre arabe occupate (ad eccezione della irriducibile Gaza) di fatto parte del suo territorio e non intende accettare che l’Europa continui a rispettare il diritto internazionale e a non riconoscere Gerusalemme e la Cisgiordania come parte dello Stato ebraico. Non sorprende perciò che il governo Netanyahu, il più nazionalista della storia del Paese, abbia reagito annunciandoall’ambasciatore Ue a Tel Aviv, Lars Faaborg Andersen, addirittura la sospensione di alcuni “dialoghi diplomatici” su temi politici e sui diritti umani. La viceministra degli esteri Tzipi Hotovely, un “falco” del Likud, ha usato i toni forti. «Agli europei preme molto essere coinvolti nel conflitto israelo-palestinese e tenere con noi un dialogo in merito. Ma alla luce del loro comportamento abbiamo deciso di sospendere i colloqui con loro su questi temi», ha proclamato perentoria.

 

Furiosa la reazione dei coloni israeliani che hanno indirettamente minacciato di mandare a casa i palestinesi che lavorano nelle loro fabbriche ed aziende, in particolare nelle zone industriali di Barkan e Mishor Addumim, paventando non meglio precisate conseguenze economiche negative per le loro esportazioni. Anche se l’Ue non ha mai detto di non voler più importare i prodotti delle colonie ebraiche, solo vuole la giusta etichettatura. I coloni in realtà temono un più facile boicottaggio dei loro prodotti nei Paesi dell’Ue dove negli ultimi anni è cresciuto il movimento BDS. Si salveranno comunque le colonie che producono vino, che potranno continuare a usare l’etichetta “Made in Israel” se l’imbottigliatura avverrà in territorio israeliano anche con uve coltivate nei Territori occupati, per il principio secondo il quale prevale la provenienza in cui viene realizzata la maggior parte del valore aggiunto.

 

Il volume commerciale tra Ue ed Israele è nell’ordine di circa 30 miliardi di euro l’anno, di cui 13 mld di esportazioni israeliane. All’interno degli scambi i prodotti delle colonie nei Territori occupati rappresentano meno dello 0,5%: appena 154 milioni di euro nel 2014. Ma se economicamente la questione è di scarsa importanza, politicamente è esplosiva, interpretata da Israele come «un mezzo di pressione europea», nonostante il vicepresidente della Commissione, Valdis Dombrovskis, abbia sottolineato che la Ue «non sostiene alcuna forma di boicottaggio o sanzione per Israele». Lo sa bene la leadership palestinese. «Siamo contenti per la decisione dell’Unione Europea», ha commentato Mohammad Shtayyeh del Comitato esecutivo dell’Olp «le nuove regole sono un appoggio importante alla soluzione dei due Stati». E soddisfazione è stata espressa anche da alcune voci israeliane. Da Peace Now, ad esempio, che da anni attua un costante monitoraggio della colonizzazione e della sua espansione. Applausi anche dai 505 israeliani firmatari di “Indication of Origin”, l’appello rivolto nei mesi scorsi all’Ue affinchè esigesse da Israele una etichettura diversa per i prodotti delle colonie. «È un passo giusto quello fatto dall’Ue» ci ha detto ieri sera uno di loro, lo scienziato David Harel «in questo momento, con questo governo in carica, è fondamentale ricordare e sottolineare che le colonie non sono in territorio israeliano ma nei territori di un’altra nazione, quella palestinese».