Potremmo chiamarla Hitler-lalia: la compulsione incontrollata a tirare fuori Hitler in un contraddittorio. Un disturbo del linguaggio che ultimamente colpisce soprattutto gli ex-sindaci di Londra. Sotto i riflettori è ancora una volta lui, Boris Johnson. Nella sua turgida verbosità è arrivato a sfoderare Hitler dal cilindro, rivaleggiando con l’ex-avversario – ex-sindaco pure lui – Ken Livingstone. Ma mentre Livingstone ha solo annoverato il dittatore nazi fra i «sionisti» – una sparata che gli è costata la sospensione temporanea dal Labour party – per Johnson è nientedimeno che l’Ue a meritarsi l’agognata similitudine con il caporale austriaco.

Intervistato dal Daily Telegraph, il giornale sul quale scrive, così si è espresso Johnson lo scorso fine settimana a proposito del tentativo d’unificazione europea, costante chimera raggiunta solo dalla Roma imperiale e da allora sempre infaticabilmente scongiurata dall’isolazionista Londra imperiale: «Napoleone, Hitler, vari personaggi ci hanno provato, e finisce in tragedia. L’Ue è un tentativo di fare la stessa cosa in modi differenti». Questo sgangheramento storiografico-populista delle motivazioni pro-Leave risente dell’effetto Trump. È un sottoprodotto culturale della special relationship fra Usa e Gb in un momento in cui su ambo le sponde dell’atlantico le due massime democrazie liberali dell’anglosfera si preparano rispettivamente all’elezione del presidente americano e al referendum sulla permanenza nell’Ue.

La trucida retorica del miliardario-politicante yankee, nella ricetta Johnson viene marinata in un citazionismo secchione di matrice tutta oxfordiana – cui l’aspirante futuro premier ha attinto a piene mani nella sua recente biografia di Winston Churchill. Per Johnson infatti, l’alternativa all’attuale arrampicata verso la leadership sarebbe una mesta senilità da backbencher-agiografo dello stesso Churchill, leader simbolo e multiuso da lui impiegato con invidiabile disinvoltura nel sostenere ora questa, ora quella asserzione. Il trattato pornoliberista Ttip per esempio, un anno e mezzo fa definito appunto «churchilliano» da Johnson, è ora nefasto perché finirebbe per danneggiare la sanità pubblica. È un Leave folgorato sulla via del settore pubblico: tutto torna utile ai Tories euroscettici pur di inebriare le folle antipolitiche in un’epica autodeterminazione nazionale che rifiuta i diktat della Bruxelles-Babilonia. Non solo attizzando peggio di un Farage lo sciovinismo populista, lo stesso che fino poco tempo fa portava i tifosi dell’Inghilterra a cantare il loro solito vecchio slogan «Two World Wars, 1 World Cup» alle partite con la Germania: ma perfino immolare la Fiat allo strapotere tedesco con parole che commuoverebbero il più rude pentastellato.

«Gli italiani, che un tempo erano una grande potenza automobilistica, sono stati assolutamente distrutti dall’Euro, come intendevano i tedeschi (…) Questa è una possibilità per il popolo britannico di essere gli eroi d’Europa». E ancora: «È tempo di liberare Britannia dalle sue catene».

L’Europa è sempre stata quella cosa capace di trasformare periodicamente il partito conservatore in una mischia di rugby. Ora la spaccatura interna è tale da avere inevitabili ricadute sulla scelta del futuro leader.

Qualunque sarà l’esito del referendum, una cosa è certa: lascerà un partito conservatore diviso, quando al di fuori è tutto un tripudio multipartisan, con i leader laburista, conservatore e liberal-democratico lanciati in un’indefessa campagna per il Remain. Che ogni giorno può agitare terrorizzanti moniti ufficiali sul futuro dell’economia in caso di uscita: ultimi in ordine di tempo quelli del governatore della banca d’Inghilterra Mark Carney e del boss dell’Imf, Christine Lagarde.