Kurt Volker, l’inviato della Casa bianca a Kiev, ha ricevuto ieri da Donald Trump, senza troppi convenevoli, come nello stile dell’uomo, il benservito. La stampa americana ha subito interpretato le dimissioni del diplomatico della Pennsylvania come prima ricaduta della pubblicazione della telefonata-scandalo tra Volodomyr Zelensky e il presidente Usa del 25 luglio scorso.

Le cose sono più complesse e riguardano solo in parte la corsa per la presidenza Usa del 2020. Se in 15 giorni Trump ha azzerato il suo staff per gli affari slavi (John Bolton è stato licenziato dopo il suo ritorno da Kiev a inizio settembre), riguarda in primo luogo la partita intorno alla soluzione del conflitto in Donbass.

A Kiev, sostiene Kommersant, Volker aveva preparato le valigie già da maggio quando Zelensky si era installato alla presidenza e il sospetto che sia lui la talpa che ha attirato l’attenzione della Cia sulla chiamata tra i due presidenti sarebbe solo la goccia che ha fatto traboccare il vaso.

Volker era stato un gran sostenitore dell’ex presidente ucraino Petr Poroshenko per tutto il suo mandato e si era speso per lui durante il ballottaggio. Zelensky lo aveva «benedetto» e ora ha potuto finalmente chiederne la testa.

Non che la pugnalata della desecretazione della telefonata sia stata già digerita nello Studio ovale. Secondo Interfax che cita proprie fonti, «la Casa bianca ha rafforzato le misure per limitare l’accesso alle telefonate del presidente Usa Donald Trump, comprese le sue conversazioni con il leader russo Vladimir Putin e il principe ereditario dell’Arabia saudita Mohammed bin Salman».

Un ex funzionario dell’amministrazione Usa afferma però che l’accesso alla trascrizioni delle conversazioni telefoniche tra Trump e Putin «è già fortemente limitato». Non è ancora chiaro se la Casa bianca abbia adottato altre misure per proteggere le informazioni. In particolare sarebbe stato creato uno speciale sistema di sicurezza elettronico per memorizzare i dati sulle conversazioni telefoniche con Putin.

Per la stampa ucraina, però, ciò che la pubblicazione del colloquio Zelensky-Trump e il licenziamento di Volker mettono in luce è il punto, delicato e decisivo, a cui sarebbe giunta la trattativa sul Donbass, a riflettori dei media spenti, tra Mosca e Kiev con Parigi osservatore assai interessato al raggiungimento di una soluzione condivisa in tempi, se non brevi, realistici.

È in questa trattativa che Trump vorrebbe inserirsi e questo spiegherebbe la dipartita di Bolton (troppo legato ai settori del Pentagono che vorrebbero tenere accesa la miccia in Ucraina orientale) e di Volker (compromesso con il «partito della guerra» di Poroshenko e da sempre «russofobo»).

Tesi sostenuto dal quotidiano di Kiev Strana, che interpreta le posizioni più vicine all’opposizione filo-russa del Blocco delle Opposizioni. Non a caso Poroshenko ha twittato ieri: «Le notizie preoccupanti da Washington sono le dimissioni di Kurt Volker. Il suo contributo al rafforzamento della nostra partnership strategica con gli Stati uniti non si può sottovalutare. E non si può sottovalutare la sua fermezza e visione strategica per contrastare l’aggressione russa».

Ora Volker sarà chiamato a testimoniare davanti al Congresso. Si vedrà se deciderà di mettere nei guai Trump o se come chiosa Izvestya «affermerà di aver solo cercato di limitare i danni causati dai tentativi dell’avvocato di Trump Rudy Giuliani di esercitare pressioni sull’Ucraina affinché indagasse sulle azioni dei democratici».

Putin da tempo ha proposto agli Usa di aggiungersi al «Formato Normandia» per implementare la pace nel Donbass, ma sono molti a scommettere che non lascerà Macron e Merkel a metà del guado. La pace in Ucraina passa per Washington e Kiev ma anche per Bruxelles.