Una saracinesca viene alzata, il rumore metallico si arrotola verso l’alto mentre all’interno del garage un cumulo di scatoloni e buste si dipana davanti agli occhi. Sono gli aiuti umanitari raccolti dalla comunità di Torre del Greco, una cittadina incastrata sulla costa tra Napoli e Sorrento. Mani che si passano incessantemente le casse di cartone e riempiono la stiva del bus, quando lo spazio è terminato s’incomincia a metterle sopra i sedili posteriori all’interno del pullman.

Cibo e medicine

Inna Dorotsinkovska, ucraina che vive in Italia dal 2000, trasporta gli scatoloni e le provviste da caricare sul bus, poi indica cosa veramente è necessario e quello che invece va lasciato come le coperte e le lenzuola. «C’è bisogno di cibo e medicine», afferma. Un moto incessante fino a quando il deposito nel seminterrato non viene quasi completamente svuotato. Il pullman è diretto in Polonia, mentre un altro, diretto in Slovacchia, verrà caricato con i prodotti accumulati dalla chiesa Sant’Antonio da Padova di Castellammare di Stabia collegata all’associazione Conadi.

Il secondo bus è stato organizzato dell’associazione Noi Minori e soprattutto Uniti per la Vita di Nicola Florio di Ercolano che è collegata con Kiev già dagli anni ‘90, quando i bambini ucraini venivano in tutta Italia per «cambiare aria» rispetto a quella contaminata dall’esplosione del reattore nucleare di Chernobyl. «Nel corso degli anni abbiamo portato più di 5500 bambini, poi molti crescendo hanno incominciato a costruire la propria vita e quando diventavano maggiorenni era più complicato riuscire a farli venire in Italia», afferma Florio.

Poi c’è Giuseppe Palomba rappresentante dell’associazione Noi Minori di Torre del Greco, Ciro Santoro consigliere e rappresentante del comune di Ercolano ed infine Inna Dorotsinkovska, per lei è il secondo viaggio con Florio per il quale fa l’interprete volontaria.

Imprevisti

Il viaggio inizia con tre ore di ritardo rispetto alla tabella di marcia, gli imprevisti sono dietro l’angolo e non sempre è possibile risolverli velocemente. Le tappe sono Napoli, Roma, Firenze, Bologna, Trieste, Lubliana, Budapest e infine Kosice in Slovacchia. Sono quasi le cinque del pomeriggio del giorno seguente quando si arriva ma è troppo tardi per andare alla frontiera con l’Ucraina e le procedure con la polizia di dogana sono lunghe e complicate. Così si decide si dormire in albergo sul lago artificiale di Zemplínska šírava. In lontananza si vedono monti, oltre c’è il confine, un altro mondo: sembra impossibile pensare nel confort di questo hotel che a pochi chilometri di distanza ci sia gente che muore sotto le bombe.

Il giorno successivo si parte verso la città di Uzhorod. Il bus imbocca una strada sbagliata dove un posto di blocco della polizia indica all’autista dove andare per arrivare al punto di ingresso della dogana. La lingua di asfalto segue una traiettoria curva, altri agenti fermano l’automezzo partito da Napoli. Tende, bagni chimici, carrelli della spesa, gente in attesa di chissà cosa, altri con bagagli al seguito, postazione della Croce Rossa, in lontananza si legge Duty Free, ma quello è già territorio ucraino. C’è tensione nell’aria. Il bus viene incanalato dietro autoarticolati e delle jeep dell’UNHCR fatte venire direttamente da Dubai perché sono più resistenti di quelle che si trovano in territorio europeo. La documentazione viene scandagliata riga per riga e lettera per lettera, nulla in un contesto del genere può essere lasciato al caso.

Terra di nessuno

L’autobus è dentro, in quel limbo di terra tra i due paesi che teoricamente è ancora terra di nessuno sebbene sia già territorio ucraino. Inna scende per chiedere dove si trovano i van per scaricare gli aiuti, una piccola truppa di soldati le si stringe attorno, alcuni la osservano come se venisse dalla luna, altri stupiti di sentir parlare la propria lingua a qualcuno che non sia sporco di fuliggine o con i lineamenti del viso stressati dalla guerra. L’autoveicolo si muove di nuovo, una donna vestita da militare impone l’alt. Ha il viso tirato, le occhiaie profonde, la pistola ben salda sul cinturone, ogni tanto ne sfiora il calcio. Passano una manciata di minuti e lascia proseguire fino ad uno spiazzo molto grande dove ci sono altre costruzioni. Anna Golovitska viene incontro al bus, poi parla con Inna e Nicola Florio, li indirizza verso altri uffici dove mostrare i documenti, la sua associazione in Ucraina si occupa della distribuzione degli aiuti su tutto il territorio nazionale. A poche centinaia di metri si scorgono dei furgoni, la meta è vicina ma gli ultimi controlli tengono il gruppo sull’autobus con il fiato sospeso. Se dovesse accadere qualcosa d’imprevisto Florio come ultima risorsa è deciso a lasciare tutto alla Croce Rossa piuttosto che a possibili sciacalli, anche se qualcuno dice che chiunque li dovesse prendere sicuramente arriveranno a persone che ne hanno bisogno.

Inna e Nicola escono con un sorriso dagli uffici della dogana, il bus si muove e parcheggia in uno spiazzo che è già territorio ucraino. Olena Nikolaieva si accosta con il suo van accanto al bagagliaio del pullman.
Olena fa avanti e indietro da Kiev per i vari punti di raccolta. Florio consegna i documenti della frontiera alla Nikolaieva perché se dovesse essere fermata in Ucraina non possa essere accusata di furto o di contrabbando.

La documentazione le può salvare la vita, ma è anche importante che arrivi alle persone giuste: i medicinali possono essere per diabetici o per sale operatorie negli ospedali di Kiev o in altre città. Suo marito è rimasto nella capitale, non è un soldato, aiuta a individuare i palazzi segnati dai russi che poi saranno bombardati o a scaricare e smistare gli aiuti umanitari che porta la moglie. «Ho un figlio di 13 anni con il quale stiamo qua a Uzhorod, al più presto voglio mandarlo da mia sorella che vive all’estero, così potrò ritornare a Kiev da mio marito», afferma sicura Olena.

Nel frattempo arriva anche Tanja Lepetucha, che coordina insieme ad Olena e Anna la distribuzione degli aiuti umanitari nel territorio ucraino. La Lepetucha e la sua famiglia sono stati ospiti di Florio dagli anni ’90 in poi. Sono abbracci e sorrisi con Florio considerato come un padre o un fratello maggiore, c’è un forte legame affettivo, questo momento così intimo ed intenso condiviso con gli altri infonde speranza nel domani. Tanja, Olena, Anna, Marina e molte altre donne filano le reti per tenere unite famiglie e persone lacerate da un conflitto che invece non si capisce quando potrà avere termine.

Sacchi di juta

Per Florio tutto ebbe inizio in un viaggio nel 1993: «Ero andato con degli amici in Ucraina per un viaggio umanitario con degli amici, mi dissero che dovevo solo filmare con la videocamera. Arrivammo ad un paese di cui non ricordo il nome dove ci vennero incontro dei bambini senza scarpe vestiti con dei sacchi di juta che camminavano scalzi sulla neve e ci portavano del pane come segno di benvenuto per gli stranieri, è una tradizione tipica ucraina. Mi cadde la camera, non ebbi la forza di continuare a filmare. Piangevo mentre accettavo quel dono. In quel momento capii che dovevo fare di più, che non era sufficiente fare un viaggio, così nacque Uniti per la Vita», Florio tiene stretta Tanja mentre parla e attraverso le lenti fotocromatiche gli occhi si inumidiscono.

Il van è pieno, Olena si accommiata dal resto della truppa. Non smette di ringraziare per i doni ricevuti, chiude lo sportello e con il volto provato s’incammina lentamente con il vecchio van su una strada che viene fagocitata dalle brulle colline che conducono alle porte di Uzhorod. Tanja ha un viso più carico di energia, forse per aver rivisto Florio, ha un entusiasmo inconscio che contagia, sicura che questa guerra prima o poi avrà termine, se non con una vittoria almeno con un accordo che salverà la patria.

Dopo le foto di rito per immortalare un momento che non è detto che si ripeterà, il pullman si muove, ritorna sui suoi passi. Superare la dogana ucraina è relativamente veloce, ma è quella slovacca che pretende di ispezionare il veicolo. Tutto viene passato al setaccio, il bagagliaio viene controllato, persino le borse degli accompagnatori vengono passate al metaldetector. Il poliziotto slovacco afferma che sono necessari per evitare il contrabbando: di alcol, di sigarette, di armi e di droga.

C’è uno smarrimento improvviso perché non si riesce a capire dove sia il punto d’incontro con il gruppo di profughi da portare in Italia, sembra che Yuliia Serhiienko, il contatto del gruppo di rifugiati da recuperare, abbia mandato la posizione senza attivare il GPS dello smartphone e il percorso manda a 500 km più a sud! Inna scende di nuovo, alcuni soldati le indicano una strada per poi svoltare a destra dopo alcuni chilometri, il bus s’infila dentro un complesso dove ci sono altri pullman parcheggiati, una jeep con dei militari dice che non è il posto giusto e allora decide di fare strada. C’è un casolare agricolo malridotto dove una pattuglia di polizia piantona l’ingresso sterrato. Florio e Inna mostrano la lista con i nomi delle persone che devono condurre in Italia. Il poliziotto dà l’ok.

Il bus imbocca la strada con un cartello dove c’è scritto «Meet Point». Un complesso a tendoni di 200 metri quadrati con davanti un parcheggio di cemento consumato dove il pullman fa un’inversione a U. Bambini sorridenti vestiti con salopette da neve corrono festanti dietro il bus. Quando il veicolo si ferma dalla struttura escono le famiglie, donne con bambini, alcune trascinano piccoli trolley mentre i più piccoli portano sulle spalle zainetti a forma di animali e altri tengono pupazzi di stoffa tra le mani. La portiera del bus si apre, Florio e gli altri accompagnatori scendono. Yuliia abbraccia Inna e Florio, c’è come un’euforia festosa per un’attesa che anche per loro è durata più di 30 ore. Si susseguono abbracci anche tra persone che non si conoscono.

I convenevoli durano un pugno di secondi, senza perdere tempo Florio incomincia a leggere la lista che tiene in mano e a far salire i nuclei familiari. Irina Strokova e la figlia Anastasia di 9 anni con lo zaino a tracolla a forma di unicorno salgono, alla spicciolata tutti gli altri prendono posto fino a completare i sedili disponibili. Nel gruppo si è aggiunta una famiglia con altri quattro elementi: Natasha Pryimachenco sua figlia Miroslava di 19 anni e il figlio autistico Lubomir di 12. Inna si appresta ad aggiungere i nominativi e i numeri di passaporto sulla lista. Florio è consapevole che il viaggio di ritorno sarà molto lungo e che i controlli non sono terminati, infatti appena usciti dal punto d’incontro la polizia slovacca ferma di nuovo il pullman, uno dei poliziotti entra nell’abitacolo e controlla uno per uno i passaporti e i documenti dei bambini mentre l’altro poliziotto carica sul sistema centrale della polizia tutti i nominativi che sono sulla lista. Passano altri 40 minuti prima che il viaggio verso l’Italia possa procedere.

Il bus si avvia verso la strada del ritorno. Le facce dei passeggeri sono finalmente rilassate anche se segnate dalla stanchezza, quelle delle donne sono ancora marcate dal suono dei bombardamenti e dallo stress di dover proteggere i propri figli non solo fisicamente, ma accompagnarli in un percorso che neanche loro capiscono a fondo e si domandano perché ci si ritrovano catapultate dentro.

Nei sotterranei

I bambini giocano tra loro, qualcuno rimane in disparte abbracciando il proprio peluche. Lidia Nefedova viene da Irpin. «Vengo da Kiev, dal primo giorno che hanno attaccato l’Ucraina ci siamo spostati a Gostomel (tra l’aeroporto della capitale e Irpin) pensando che saremmo stati più al sicuro. Invece il giorno successivo tutta l’aerea intorno era già stata occupata dall’esercito russo che attaccava dai piccoli paesini limitrofi. Il più piccolo del nostro gruppo aveva due anni e mezzo, eravamo l’epicentro del combattimento.

Olena Nikolaieva, Florio e Giuseppe Palomba caricano gli aiuti umanitari alla dogana prima di Užhorod.

Quando stavano bombardando e c’erano scontri in strada tra le opposte fazioni i soldati russi non ci facevano uscire di casa, quindi ci siamo rifugiati nei sotterranei che sono delle grotte scavate nella terra senza alcun rivestimento e piene d’insetti. È il posto dove stipiamo gli ortaggi, scatolame vario e le conserve per l’inverno. Per giorni siamo rimasti sotto terra rintanati e siamo dovuti rimanere là anche se ci ammalavamo insieme ai bambini, per fortuna avevamo cibo a sufficienza. Quando hanno messo i corridoi umanitari abbiamo deciso di andare via, pur sapendo che era pericoloso. Abbiamo dovuto lasciare la nostra automobile in un campo di grano e siamo andati a piedi attraverso il bosco fino a quando abbiamo incontrato i soldati ucraini che ci hanno caricati sui loro mezzi e portati al riparo».

Lidia era con suo marito e altri 15 bambini e tre anziani di cui uno paralizzato che i militari ucraini hanno caricato trasportandolo su uno spesso lenzuolo. Lidia racconta di come ad un checkpoint un soldato russo con il cognome tipico di Donetsk avesse chiesto ad ogni auto la tangente di un cellulare per poter passare, hanno consegnato quello della bambina le cui lacrime non hanno impietosito i soldati.

«Le valigie le abbiamo dovute abbandonare nella macchina, non potevamo portare peso superfluo, ho preso giusto i soldi e i documenti. La piccola era spaventata, la consolavo, ma avevo paura che potesse accadere l’irreparabile, potevamo morire in ogni momento da quando abbiamo lasciato il ripostiglio sotterraneo», mentre racconta Lidia guarda in un punto vuoto attraverso il vetro del bus, come se solo in questo momento stesse riuscendo a capire quello che le è accaduto. Molte altre donne sul pullman diretto verso Napoli guardano lo stesso punto, mentre la strada scivola sotto le ruote del bus riavvolgono le ultime settimane, cercano di riordinare le idee, un’elaborazione che può esserci solo quando finalmente ci si sente al sicuro, e il resto sembra apparentemente essere alle spalle. «Mia figlia ha continuato a non dormire e a tremare, solo a Uzhorod ha incominciato a rilassarsi. Arrivati a Kiev mio marito si è arruolato nell’esercito regolare», conclude Lidia.

Nel corridoio

«Mi chiamo Yuliia Serhiienko, sono di Kiev, mio marito in questo momento sta combattendo al fronte, è stato uno dei primi ad andare nel Donbass nel 2014. Dall’inizio della guerra con mia figlia Miroslava di 5 anni abbiamo vissuto praticamente nel corridoio di casa perché il rifugio era troppo distante e avevo paura ad andarci. Dalla tv ci hanno istruito di rimanere in uno spazio con quattro mura perché era più sicuro nel caso in cui l’edificio fosse stato bombardato. Ero preoccupata per la bambina e per mio marito che insisteva a dirmi di andare via perché non poteva stare in trincea e continuare a pensare a noi, ma non volevo perché significava abbandonare anche mia madre. Così, dopo l’ennesima volta in cui tremavano i vetri di casa e ho visto gli occhi di Miroslava allora ho capito che era il momento», afferma Yuliia. Faceva parte di un gruppo di mogli di militari che sono al fronte di cui lei si è fatta portavoce per organizzare «la fuga». Si è messa in contatto con la signora Alla Oleinik vicepresidente dell’associazione Sdarovie (Salute) 2006 che si trova a Kiev la quale collabora con Uniti per la Vita per portare i bambini di Chernobyl in Italia.

«Girava la voce che lui avrebbe dichiarato guerra, ma fino all’ultimo abbiamo sperato che fosse solo una provocazione. Quando è scoppiata ero al lavoro, tornando a casa non sapevo neanche come spiegare a mia figlia che era iniziato il conflitto. È una cosa impensabile che nel XXI secolo dobbiamo affrontare una cosa simile, c’è il dialogo, la diplomazia, si poteva trovare un accordo senza arrivare a questo punto. È stato uno shock per tutti», conclude Yuliia.

C’è serietà nel viaggio e anche stanchezza, si dorme sui sedili. Scende la notte e anche l’appetito, ci si ferma in un’area di servizio in Ungheria per un pasto caldo offerto da «Uniti per la Vita» e «Noi Minori». La sosta è stata più lunga del previsto anche perché l’autogrill non era attrezzato e ha dovuto preparare la cena al momento per 50 persone: gulasch e sandwich. Si ritorna sul bus, sfiniti la maggior parte si addormenta quasi subito. Qualche mamma continua a scrivere sul cellulare, massaggiando con i mariti e con i propri genitori rimasti in patria.

Budapest, Lubiana, Gorizia … le luci dell’alba rifrangono attraverso le tendine, l’autista inforca gli occhiali da sole mentre il secondo autista è ancora appisolato. Il timer di guida dice che a breve c’è la sosta obbligatoria. A Bologna ci si ferma ad un autogrill, anche le famiglie ucraine sembrano apprezzare cappuccino e cornetti.

Figli e nipoti

Yulya Soloviova da Kiev è venuta con le figlie Daria 6 anni e Bogdana 2. Poi ci sono Tanya Novohatskii con i gemelli di 19 mesi Olya e Eva, il figlio più grande Danya ha 16 anni, quello di mezzo Egor di 9. Natasha Skrypka accompagna la nipote Slata Kozlenko di 10 anni. Valeria Shtakal anche lei di Kiev sta con la figlia Karina di 5 anni.

Firenze, Roma e verso il capoluogo napoletano. I bambini fanno più confusione del giorno precedente. Lubomir non resiste molto e la madre suda letteralmente sette camice per calmarlo, quando si arriverà alla Mostra d’Oltremare a Napoli si scoprirà che il ragazzo autistico purtroppo ha il covid e verrà indirizzato all’ospedale del Mare. Lì inizierà tutta la trafila per poi ospitarlo con la madre in una struttura o in un appartamento adeguati.

Il Vesuvio si vede all’orizzonte dopo l’ultima sosta nei pressi del Raccordo Anulare di Roma. Il bus imbocca la tangenziale per la Mostra d’Oltremare a Fuorigrotta. I passeggeri scendono esausti ma contenti, il cielo assolato e una temperatura mite sembrano spazzare via gli incubi delle ultime settimane dai volti delle donne e dei bambini. Vengono portate bottigliette d’acqua e panini per i nuovi arrivati. Dentro la struttura iniziano le procedure di registrazione e subito dopo i tamponi e chi vuole può essere vaccinato. Infine si passa al desk della Polizia di Stato per ottenere il visto.

Fuori sul prato i bambini si rincorrono, le ragazze si cimentano in piccoli esercizi ginnici e a fare la ruota, altri giocano a nascondino, le madri chiacchierano tra loro. Per un momento sembra la scena quotidiana e normale di famiglie che si sono date appuntamento per incontrarsi per una passeggiata all’aperto. Le ultime procedure sono terminate e Florio ritorna con i documenti delle prefettura, si risale sul bus per andare a Torre del Greco dove è stata organizzata una cena di benvenuto. Alla fine della serata un paio di adolescenti ucraine che erano sul bus vanno via con le rispettive famiglie che le hanno accolte. Piangono come se fosse un addio definitivo, ma forse piangono perché questa separazione è una nuova lacerazione dopo il legame che si è instaurato in un frangente delicato della loro vita che rimarrà indelebile.

Tutto sembra filare liscio, ma le difficoltà sono solo all’inizio. «L’alloggio, la registrazione e la frequenza della scuola, il consolato con i documenti che ci manda avanti e indietro, il tribunale dei minori … un lavoro immane», afferma provato Nicola Florio. Infatti il viaggio è stato lungo, il clima a Napoli è completamente diverso, i bambini e le donne erano vestiti con salopette da neve e infine la cena di benvenuto. Così il giorno successivo qualche bambino sta male con lo stomaco. Le famiglie italiane ospitanti si lamentano dell’odore acre di chi non si è potuto lavare, chi è spaventato che gli ospiti ucraini possano avere il covid dopo che qualcuno ha avuto qualche linea di febbre e li vorrebbero fuori da casa propria. «L’accoglienza non si ferma al viaggio ed ad una cena di benvenuto, l’accoglienza inizia il giorno dopo, quando i problemi veri vengono a galla tra le differenze culturali e linguistiche», afferma Inna. Lei, chiamata in continuazione, diventa psicologa e mediatrice, lei che vive in Italia da 20 anni è fondamentale per unire la cultura mediterranea con quella slava, Inna che sta mettendo in secondo piano la propria vita privata e il proprio lavoro.

«Putin ha rovinato il nostro rapporto, i russi ci chiamavano fratelli, questa è una ferita che rimarrà. Ho tanti amici russi in Italia, ci conosciamo da 20 anni, ma cerchiamo di non toccare la politica. Un’amica bielorussa quando ha saputo che il suo presidente lasciava attaccare l’Ucraina, mi ha chiamato ma non potevo rispondere perché ero alla guida. Quando l’ho richiamata mi ha detto che credeva che l’avessi bloccata e che ha paura di dire la sua nazionalità perché molti europei incominciano ad avere un atteggiamento ostile contro i russi … ma al telefono le ho detto che sarà sempre mia amica».