La situazione a Donetsk e dintorni rimane «stabilmente tesa», titolavano ieri varie agenzie. Gli scontri iniziati in mattinata sono proseguiti per tutto il giorno, con tiri d’artiglieria anche in altre province della regione di Donetsk. Morti alcuni soldati governativi; caduti tra i civili e i miliziani, che hanno accusato Kiev di aver violato 16 volte il cessate il fuoco nella notte tra domenica e lunedì.

Ed è stato poi aggiornato il triste elenco dei corpi martoriati e di impossibile identificazione, rinvenuti in una serie di fosse comuni fuori Donetsk, in zone prima controllate dai battaglioni neofascisti: oltre 400 cadaveri, 350 dei quali di civili. Anche per questo la Direzione centrale investigativa russa ha aperto una causa penale contro «persone non identificate appartenenti alla leadership politica e militare ucraina», per il genocidio della popolazione di lingua russa nell’Ucraina sudorientale.

Domenica scorsa un miliziano è stato ucciso e uno ferito: l’auto su cui si recavano verso l’aeroporto di Donetsk, ancora in mano ai governativi, per parlamentare con loro, è stata accolta a colpi di mitra, nonostante la bandiera bianca sul tettuccio. Intoppi anche per lo scambio di prigionieri: stando alle milizie (ma la notizia è stata diffusa anche dal Nyt), in varie occasioni Kiev avrebbe rilasciato non combattenti, ma semplici civili arrestati. È il caso, a esempio, della giornalista crimeana Anna Mokhova, rilasciata lo scorso 22 settembre, che ha raccontato di essere stata picchiata e minacciata di fucilazione. Ma, domenica, dei 60 prigionieri rilasciati da Kiev, oltre la metà non erano miliziani. Che la situazione sia tesa lo testimonia anche il fatto che della carovana antifascista europea, composta anche di molti italiani, che tentava ieri di entrare nel Donbass per portare solidarietà e aiuti a Novorossija, solo due piccole delegazioni sono state fatte passare, perché le milizie non possono garantirne la sicurezza.

Intanto, a Kharkov, dove domenica gruppi neofascsti hanno abbattuto la statua di Lenin (la più grande del paese) in piazza della Libertà, sono continuate anche ieri le manifestazioni, con scontri tra chi era favorevole e chi sarebbe stato contrario all’abbattimento. Il leader del Pc ucraino Pëtr Simonenko ha definito l’atto «la conferma lampante che al potere sono andati i vandali; con essi non c’è futuro per il paese». E lo scrittore bielorusso Vsevolod Nepogodin, ha detto: «non è importante quale brigata nazista l’abbia fatto. L’ordine è arrivato dall’alto.

La distruzione del monumento a Lenin è un messaggio alla gente sul nuovo ordine». Se è così, è chiaro che il golpe di febbraio era stato ben annunciato dall’abbattimento del monumento a Lenin nel centro di Kiev, a fine 2013. Evidentemente allarmato dalla piega presa dagli avvenimenti, il sindaco di Kharkov Ghennadij Kernes ha promesso il restauro del monumento, benché la procura abbia aperto e subito chiuso il fascicolo, con la motivazione dell’assenza di vittime: il manifestante pro-Lenin picchiato a morte in piazza della Libertà non fa numero.

E se a Kiev non si è ancora giunti a una decisione sull’accordo a tre (Russia-Ucraina-Ue) per il transito del gas russo verso l’Europa e per il saldo del debito ucraino, prima di dare il via alle nuove forniture, è la Ue che ieri ha deciso ieri di prendere ancora tempo, fino a tutto il 2015, prima di dare il via libera all’accordo sul libero commercio con Kiev.