Avigdor Lieberman aveva appena «avvertito» i manifestanti palestinesi: Israele non cambia politica, «chiunque si avvicini al confine mette la propria vita in pericolo». Poco dopo la minaccia del ministro della difesa israeliano, il 25enne palestinese Ahmed Omar Arafa veniva colpito al torace dalle pallottole dell’esercito vicino al campo profughi di al-Burj, al centro di Gaza.

Si era avvicinato alla barriera che divide l’enclave palestinese al territorio israeliano durante le proteste per il diritto al ritorno, che – hanno annunciato da tempo i palestinesi – dureranno fino al 15 maggio, il 70° anniversario della Nakba, la catastrofe del 1948.

I proiettili minacciati da Lieberman sono stati subito sparati, riedizione di quanto accaduto venerdì nel Giorno della Terra. La Marcia del Ritorno continua: dopo il massacro di 18 palestinesi (l’ultimo è deceduto lunedì per le ferite riportate, Fares al-Raqb, 29 anni di Khan Younis, colpito allo stomaco), le proteste non cessano. Come non cessano le dichiarazioni dei vertici israeliani che, se da una parte rigettano i deboli tentativi dell’Onu di lanciare un’indagine, dall’altra difendono l’operato dell’esercito.

È un fatto di coerenza: l’ordine di sparare sui 30mila manifestanti palestinesi che venerdì scorso marciavano verso il confine è arrivato da governo e comandi delle forze armate.

È proprio la prevedibilità della strage al centro del rapporto pubblicato ieri da Human Rights Watch e a cui indirettamente Lieberman ha risposto mentre faceva visita alle comunità israeliane a sud: le uccisioni di manifestanti palestinesi, scrive l’organizzazione, sono illegali e calcolate.

«Il governo israeliano – si legge nel rapporto – non ha presentato prove che il lancio di pietre o altre violenze da parte di alcuni manifestanti abbiano seriamente messo in pericolo i soldati lungo il confine. L’alto numero di morti e feriti era la prevedibile conseguenza della libertà garantita ai soldati di usare la forza letale al di fuori di situazioni di minaccia, in violazione del diritto internazionale». A riprova in rete circolano da giorni i video di quelle che possono essere descritte come esecuzioni sul posto, manifestanti lontano dal confine e disarmati centrati dai cecchini israeliani.

Questo è finora il solo rapporto «internazionale» dopo i fatti di venerdì. Le Nazioni Unite sono in stallo e la richiesta palestinese alla Lega araba di lanciare una propria indagine e, di conseguenza, di condannare Israele è stata esaudita solo a metà: il segretario generale Abul-Gheit ha fatto appello al Consiglio di Sicurezza dell’Onu perché formi una commissione internazionale che indaghi le uccisioni di venerdì.

Appello che il Consiglio della Lega Araba ha fatto suo con un documento adottato all’unanimità dai presenti: aprire indagini «credibili e limitate nel tempo» e «assicurare un meccanismo chiaro per giudicare i responsabili israeliani e risarcire le vittime».