Giornalisti e analisti arabi tirano in questi giorni le somme di sei mesi di avanzata dello Stato Islamico. Una forza militare informale con pochi precedenti, in breve tempo capace di surclassare la temibile Al Qaeda, madre ripudiata dall’autoproclamato califfo al-Baghdadi. Capace di moltiplicare il numero di miliziani nelle proprie file e rimpinzare le proprie casse con razzie, finanziamenti dall’estero e vendita sottobanco del petrolio di Baghdad. Una forza conservatrice ma dalla modernissima propaganda, in grado di prendere possesso di un terzo dell’Iraq e di una buona parte del nord della Siria.

Che ne sarà dell’Isis nel 2015? E soprattutto, cosa ne sarà della Siria, dell’Iraq e del Medio Oriente figlio dell’accordo Sykes-Picot? Il giornalista iracheno Salah al Nasrawi aveva spiegato al manifesto il 9 dicembre scorso di come nella regione fosse in atto un ampio processo di rimappatura: i confini conosciuti potrebbero scomparire, sulla spinta non tanto dell’avanzata dell’Isis quanto dell’utilizzo che di tale offensiva fanno i poteri arabi e occidentali.

E dopo sei mesi di califfato, ad uscirne ridefinita è anche la rete di alleanze, ufficiali e ufficiose. La Damasco di Assad non appare più un nemico assoluto, né tantomeno lo è l’Iran di Rowhani la cui cooperazione militare indiretta con gli Stati uniti nello scenario iracheno è ormai chiara. Lo riconferma l’uccisione a Samarra di un generale delle Guardie Rivoluzionarie iraniane, Hamid Taqhavi, omicidio rivendicato dallo Stato Islamico. Taqhavi si trovava in Iraq con un contingente di pasdaran per addestrare le truppe di Baghdad e definirne strategie di difesa e controffensiva. Un fatto noto a Washington da mesi, insieme all’armamento iraniano dei peshmerga di Irbil.

La centralità delle milizie sciite irachene, strettamente legate all’Iran, nella battaglia contro l’Isis è visibile: ieri l’esercito di Baghdad ha potuto completare l’operazione di ripresa della città di Dhuluiyah, da mesi in mano islamista, grazie alla partecipazione delle milizie Badr. Teheran non ha mai nascosto le proprie mire (mantenere l’influenza riguadagnata nel dopo-Saddam sul governo sciita di Baghdad), mire non del tutto in contraddizione con quelle Usa che da tempo immaginano un Iraq federale, diviso in tre entità etniche e religiose, una curda, una sciita e una sunnita.

Diverso il destino della Siria, dove la guerra civile entra nel suo quinto anno e la divisione del territorio è più marcata: il presidente Assad mantiene il controllo delle regioni occidentali, dalla città costiera di Latakia alla capitale; l’Isis occupa sacche delle regioni nord orientali dalla periferia di Aleppo al confine con l’Iraq, passando per la “capitale” Raqqa; le forze di opposizione (dagli islamisti di al Nusra all’indebolito Esercito Libero Siriano) mantengono le posizioni a sud, alla frontiera con Israele, e a nord-ovest.

Tre entità diverse, con un’autorità statale che si difende ed un potere ufficioso, quello islamista, che ha creato uno Stato parallelo, con una propria amministrazione e proprie leggi nelle zone che sono prive di governo da anni. Alle aspirazioni di governo, il califfo affianca le operazioni militari: lunedì un’autobomba è stata fatta esplodere vicino all’impianto di gas di Firqlos nella città di Homs, uccidendo otto persone, di cui quattro soldati.

Ieri i miliziani islamisti hanno pubblicato sulla rivista online Dabiq la presunta intervista con il pilota giordano catturato la scorsa settimana in Siria, dopo la caduta del suo F16 (abbattuto dall’Isis secondo gli islamisti, caduto per un incidente secondo Amman). Muadh al-Kasasbeh, nelle parole riportate dal magazine islamista, dice di essere stato colpito da un missile terra-aria lanciato da Raqqa e di essere finito nel fiume Eufrate, prima di venir catturato dall’Isis. Se così fosse, una volta di più l’Isis dimostra la sua forza militare.