A pochi giorni dalla morte di Rezaul Karim Siddique, un docente di inglese della Rajshahi University nel Nordest del Bangladesh, ucciso da affiliati di Daesh che lo accusavano di «ateismo», ieri è stata la volta di Xulhaz Mannan e di un suo compagno massacrati in un appartamento di Dacca nella zona metropolitana di Kalabagan. Mannan era noto per aver fondato il primo magazine Lgbt del Paese e per essersi forse anche macchiato del delitto di lavorare per Usaid, l’agenzia di cooperazione Usa. Del suo compagno non si sa per ora molto altro se non il solo nome: Tonmoy.

Xulhaz e Tonmoy sarebbero stati aggrediti – dalle prime ricostruzioni – da almeno cinque persone, spacciatesi per uomini dello staff di Usaid che, con questa scusa, forse la consegna di materiale, si sono introdotti verso le cinque e un quarto del pomeriggio nel suo appartamento armati di machete, riservando ai due uomini la stessa morte riservata ad altri attivisti, blogger o, come nel caso di Siddique (anche lui ucciso a colpi di machete), a gente che lavora nell’ambito culturale o dello spettacolo.
Sempre secondo le prime ricostruzioni della polizia, il massacro sarebbe avvenuto in tempi rapidissimi e il team di assassini si sarebbe poi allontanato indisturbato facendo perdere le tracce.

La lista delle uccisioni mirate – a volte firmate da Daesh a volte da altri gruppi radicali oppure senza rivendicazione – è lunga. L’estate scorsa era toccato a Niloy Neel, il quarto blogger dell’anno preso di mira – anche lui a colpi di machete – dopo Avijit Roy, Washiqur Rahman e Ananta Bijoy Das. La loro colpa: quella di essere considerati «atei» (per la cronaca la figlia di Siddique ha smentito che il padre lo fosse) e di utilizzare internet per polemizzare sull’esistenza di dio ma anche solo per discutere di politica o sfidare le regole dell’islam, religione ufficiale del Bangladesh. Come ha fatto notare la Bbc, con Niloy c’era stato un salto di qualità, ora ripetutosi col direttore di Roopbaan, il primo magazine Lgbt del Bangladesh: prima si uccideva in pubblico, adesso si entra nelle case. Ma la differenza è relativa.

La verità evidente è che nel mirino entrano sempre più persone anche se non è mai stato esattamente chiarito il legame tra i vari delitti né se vi sia un filo rosso che li lega alle uccisioni o agli attentati contro stranieri di cui sono stati vittima anche due italiani: prima Cesare Tavella, ucciso a colpi di pistola nella capitale mentre faceva jogging, poi, nel novembre scorso, padre Piero Parolari, fortunatamente solo ferito a Dinajpur, 350 chilometri a Nord di Dacca, dove il sacerdote svolgeva, oltre al servizio pastorale, anche l’attività di medico nell’ospedale della missione locale e come volontario al Dinajpur Medical College Hospital.

Gli stranieri sono comunque stati target occasionali mentre quella dei blogger sembra adesso sempre di più una pista credibile che si serve di una lista da «spuntare» poco per volta. Questa comunità ora si sente, e forse si sentiva già da tempo, in pericolo soprattutto da quando una lista con 84 nomi di «blogger atei» è saltata fuori dopo che la polizia ha compiuto arresti in qualche madrasa e tra i gruppi giovanili islamisti del Paese.

In realtà la lista è nota dal 2013 ed era stata addirittura presentata alle autorità per chieder l’arresto dei blogger e processi per blasfemia. Poi si è passati dalla lista ai fatti anche se diversi gruppi islamisti – che l’avevano sostenuta – hanno smentito che vi sia un nesso con il killeraggio organizzato.

Ma resta evidente che tra una lista stilata per mettere all’indice i blogger e che li uccide ci sta in mezzo un contesto che spinge a condannare, isolare socialmente e infine punire chi devia dalla retta via. Molti infatti condannano le uccisioni ma nel contempo non assolvono i blogger, accusati di minare le basi della fede religiosa. Un’altra ipotesi la fa il ministro dell’Informazione del Bangladesh, Hasanul Haq, secondo il quale questi attacchi ai blogger sarebbero solo un modo per distrarre l’attenzione degli inquirenti dai gruppi islamisti con un’agenda eversiva anti statale che in questo modo cercherebbe di far focalizzare gli sguardi su blasfemi e anti islamici e non su di loro. Sta di fatto che i blogger non si sentono affatto protetti da un governo per il quale le priorità sembrano altre.

In mezzo a tutto ciò spunta Daesh o chi utilizza il brand, più o meno d’accordo con gli uomini di Al Bagdadi, da qualche tempo in difficoltà nel loro proselitismo dopo le sconfitte nei territori conquistati dal neonato califfato. Ma Daesh o non Daesh, il Bangladesh sta facendo i conti con una vera e propria campagna assassina contro atei e «blasfemi». E adesso anche contro chi difende i diritti di gay, lesbiche e trasgender.