A volte le cose più strane creano conflitti o diventano soluzione di problemi. È il caso di un uccello dal piumaggio colorato, di una dinastia di paludati monarchi del Golfo e di un paese povero dell’Asia meridionale. L’uccello si chiama ubara – in inglese Houbara bustard – ed è un animale grazioso della famiglia conosciuta come Chlamydotis undulata. È originario del Nord Africa ma comprende una specie diffusa in Asia, detta MacQueen’s bustard. In origine considerata una sottospecie della famiglia africana, è in realtà il tipo di ubara più numeroso. Ma ha un problema: la caccia.

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La caccia avviene quando l’ubara migra dalle steppe dell’Asia centrale, predilette dalla famiglia MacQueen, per andare a svernare in India e nel sud del Pakistan, un paese cui il caldo non manca mai. E qui abbiam detto dell’uccello e del paese povero. Ora veniamo ai cacciatori: questi abitano tra Riad e Kuwait City, sono ricchi e appassionati della caccia col falco. Per loro, le steppe dell’Asia centrale son lontane. Il Pakistan invece, è il caso di dire, è a un tiro di schioppo. Ed è anche un paese dove è facile ottenere il permesso per una specie protetta come è nel caso dell’ubara.

Non è però la solita storia del ricco che va a caccia nel giardino del povero infischiandosene della legge. L’ubara è diventato un affare di Stato, anzi di Stati, che finisce per raccontare più di geopolitica che di arte venatoria o di giusta indignazione animalista. È una storia che vale la pena di raccontare.

Uno sguardo alla carta geografica

Se la geopolitica fosse fatta solo di confini, accordi diplomatici e, in caso di guerra, di forniture di armi, mezzi e soldati, la lettura di come va il mondo sarebbe molto semplice. In poche parole, per capire cosa accade tra il Pakistan e l’Arabia saudita, dopo che Islamabad ha prima negato i suoi soldati a Riad nella guerra in Yemen e, recentemente, si è dimostrata molto fredda verso la coalizione anti sciita messa in piedi dai sauditi per contenere l’Iran, basta guardare la carta geografica: il Pakistan confina con l’Iran, paese a maggioranza sciita con cui ha accordi commerciali importanti e progetti in corso. Il Pakistan è interessato al petrolio e al gas iraniano e infine ospita una minoranza sciita importante.

Se volete c’è anche di mezzo l’Afghanistan, paese in guerra e con cui i nostri due confinano. Si capisce dunque la riluttanza di Islamabad a schierarsi coi sauditi nel loro jihad anti irano-sciita. Ma c’è dell’altro, un uccello appunto. Il nostro, o la nostra, ubara.

Come abbiamo detto sceicchi, emiri e dignitari della real casa dei Saud sono cacciatori di ubara ma lo sfortunato uccello, un tempo diffuso dal Sinai a tutta la penisola arabica e oltre, in Medio Oriente è ormai praticamente estinto, Non resta dunque che il Pakistan, anche se formalmente esiste un divieto di caccia all’ubara. Divieto che però ammette eccezioni ad personam. Si paga e via. Luoghi prediletti: la provincia del Belucistan ma anche Sindh e Punjab. L’ubara sverna pure in India ma laggiù è rigidamente protetto. In Pakistan invece basta pagare.

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Nel 2014 un articolo del britannico The Guardian spiegava che «… quest’anno il Pakistan ha emesso 33 permessi ad altrettanti dignitari per uccidere cento esemplari a testa. La lista delle licenze è un elenco di vip dei potentati del Golfo che include gli emiri del Kuwait e del Qatar, un principe saudita e il presidente degli Emirati arabi uniti». Uniti nella caccia col falcone.

Lo stesso anno però comincia anche a montare la protesta: ambientalisti, animalisti ma anche uomini di legge, normali cittadini. Nel gennaio del 2014, il periodo migliore per la caccia, il principe Fahd bin Sultan bin Abdul Aziz Al Saud ha sforato un po’. Secondo il rapporto del divisional forest officer del Belucistan, il responsabile forestale, tra l’11 e il 21 gennaio, la testa coronata ha cacciato 1977 uccelli mentre altri membri della partita di caccia all’ubara ne han messi nel carniere altri 123. Totale: 2100 volatili. La cosa finisce sui giornali.

A febbraio 2014 l’Alta corte del Punjab – massima autorità provinciale – emette una sentenza che vieta la caccia all’ubara. Faranno lo stesso le altre quattro corti provinciali? La protesta intanto è montata e dilaga (si fa per dire visto che sembra solo un affare per animalisti) sulla stampa internazionale. I pachistani si indignano e si capisce che, dietro l’ubara, c’è un risveglio d’orgoglio nazionale. Ci son già i droni americani a farla da padrone nelle aree tribali. Adesso ci si mettono anche i cugini ricchi con la fauna protetta! Succede insomma che il caso arriva alla Corte suprema che si riunisce con tre giudici e nell’agosto dell’anno scorso emette un bando nazionale. Fine della caccia agli ubara. Il caso è chiuso.

Il doppio gran rifiuto pakistano

Tra la sentenza del 19 agosto 2015 e il gennaio del 2016 succedono però una serie di cose. Come abbiamo già detto la tensione tra Islamabad e Riyadh – ma anche con gli altri paesi del Golfo – è palpabile. Prima il rifiuto di mandar truppe nello Yemen, dove va in scena il Vietnam saudita nello scontro con gli Houti (sciiti e amici di Teheran), poi la freddezza verso la mega coalizione che i sauditi han messo in piedi allo scopo evidente di contenere l’uscita dall’angolo dell’Iran, favorita dall’accordo che a Vienna ha deciso, sempre nel 2015, che Teheran può tornare a sedersi a tavola con tutti gli altri.

Prima Islamabad fa sapere di non esser stata consultata, poi si offre come mediatrice, poi ancora – per stare in equilibrio – reitera (lo aveva gà fatto per lo Yemen) che se – e sottolineo se – la sovranità saudita verrà minacciata, allora interverrà. Alleato, sì, ma riluttante. La querelle diplomatica si svolge in un contesto di viaggi, degli uni e degli altri, nelle rispettive capitali. Il dossier scotta: il Golfo trabocca di manovali pachistani che aiutano la stentata economia nazionale con le loro rimesse. E Riyadh finanzia progetti e infrastrutture. Non si vorrà mettere a rischio tutto questo…

La satira spiega tutto

Come va a finire? Ci viene in soccorso la satira che rivela un particolare che porta, sul tavolo delle trattative, anche l’ubara. Il quotidiano progressista The Dawn pubblica il 14 gennaio una specie di fotoromanzo in cui si vede un incontro tra il premier Nawaz Sharif, il capo dell’esercito generale Raheel e un emissario della casa regnante saudita. Questo chiede a Raheel e Nawaz di armi e soldati ma loro glissano. È ora di pranzo, dice il primo ministro, ma al principe preme la risposta militare. Il premier allora accenna al menù che comprende un ubara arrosto… Ecco ci siamo, la conversazione scifta dunque sui famosi permessi di caccia. E quando Nawaz ricorda all’ospite che c’è da sistemare la faccenda militare, è il saudita che glissa. «Ma quali truppe?». A tavola! La questione è risolta.

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Una scena del fotoromanzo pubblicato da «The Dawn», in cui il principe Saud si rivolge al generale Raheel, capo dell’esercito pakistano: «Allora generale, pronti a mandarci le truppe?». Risposta: «Ne avete bisogno per cacciare l’ubara?»

Sì, risolta. Già in ottobre, il governo federale aveva chiesto alla Corte suprema di rivedere il suo giudizio. C’è voluto un po’ ma ecco che un nuovo verdetto arriva venerdi 22 gennaio. La Corte suprema si è questa volta riunita con cinque giudici, istanza superiore, anzi più che suprema. Decreta che il bando di agosto viene revocato perché, dice il testo della sentenza, c’è evidentemente stato un «errore» e del resto alla giustizia «compete di interpretare le leggi, non di legiferare».

La Corte suprema riconosce solo che questa specie è a rischio e che dunque bisogna sforzarsi di preservarla. Come? I sauditi hanno già pronta la ricetta: allevamenti e studi biologici per la conservazione della specie. E della caccia. Non sia mai che anche questa sia in via d’estinzione.