Dopo avere esposto la sua visione sulla necessità di laurearsi a 21 anni con 97, e non con 110 a 28, perché «i nostri ragazzi si trovano a competere con ragazzi di altre nazioni che hanno sei anni meno», ieri in un convegno alla Luiss a Roma il ministro del lavoro Giuliano Poletti ha esposto una teoria sull’innovazione. «Dovremo immaginare un contratto di lavoro che non abbia come unico riferimento l’ora di lavoro ma la misura dell’apporto dell’opera. L’ora/lavoro è un attrezzo vecchio che non permette l’innovazione – ha detto – Il lavoro oggi è un po’ meno cessione di energia meccanica ad ore ma sempre risultato. Con la tecnologia possiamo guadagnare qualche metro di libertà». Poletti ha anche sottolineato la necessità di inserire nei contratti altri criteri per la definizione della retribuzione che non siano solo riferimento all’ora-lavoro. «Bisogna misurare anche l’apporto dell’opera» ha spiegato. Il ministro ha sottolineato la necessità di lavorare all’introduzione di forme di partecipazione dei lavoratori all’impresa.

Il ministro filosofo legge Hannah Arendt

Dopo le polemiche furibonde provocate dalle tesi sulla competizione tra i laureati, la nuova tesi esprime un inedito livello di complessità. Sembra essere ispirata al celebre libro di Hannah Arendt «Vita Activa» o al più recente «Insieme» del sociologo Richard Sennet. Poletti cita la distinzione tra lavoro e opera, tra attività subordinata meccanica e attività autonoma economicamente dipendente dal datore di lavoro, la «summa divisio» già presente nel diritto romano tra «locatio operis» e «locatio operarum». L’attività lavorativa subordinata obbedisce a un contratto, quella autonoma a un rapporto di mercato e alla negoziazione personale (ma anche di categoria). Questa distinzione è stata trasfigurata dalle trasformazioni tecnologiche, come sostiene il ministro, ma anche da una legislazione che ha moltiplicato il precariato, l’offensiva fiscale e previdenziale contro il lavoro autonomo, la corsa al ribasso di salari, redditi e tutele. Questo Poletti non lo dice, anche perché il «Jobs Act» si muove in direzione della personalizzazione del rapporto di lavoro, la regressione del rapporto salariato al cottimo, al lavoro a chiamata.

Autosfruttamento 24/7

Verso la «uberizzazione» del lavoro, un neologismo che sintetizza l’apporto all’innovazione – teoria evocata da Poletti – da Uber. Nella multinazionale Usa gli autisti freelance mettono a disposizione la macchina e rispondono alle chiamate dei clienti via app. Un modello diffuso anche in altri settori. Se così fosse intesa, la teoria del ministro-filosofo sarebbe l’ultimo fendente ai contratti nazionali e il passo successivo all’abolizione dell’articolo 18. I parametri con cui sarà valutato il lavoro cambieranno di persona in persona, eliminando la possibilità di creare rivendicazioni e difese collettive nell’economia «on demand» basata sulle forme più estreme di «work on call». In Italia ci sono i «voucher», buoni orari ma senza una precisa definizione che leghi la prestazione richiesta con la retribuzione. Il lavoro puntiforme, discontinuo, a singhiozzo dei lavoratori «a scontrino» è solo l’ultima forma di un lavoro senza diritti né tutele in cui il parametro «ora/lavoro» è superato nei fatti, e non da oggi.

Basta andare nei supermercati aperti 24 ore su 24, un modello produttivo diventato stile di vita: quello del capitalismo che non dorme mai, scrive Jonathan Crary nel libro 24/7. Non siamo più allo sfruttamento del capitale, bensì all’autosfruttamento. Il tempo di lavoro non è più standardizzato, ma si è impadronito della vita. E della volontà dei singoli che interagiscono sempre con la produzione immateriale. La cooperazione, e persino il respiro, sono stati messi al lavoro per altri. Si è infelici e sfruttati, ma sempre disponibili ad apparire. È la logica di facebook nel mondo reale.

Le alternative nell’innovazione

La tesi, già nota per le sue conseguenze, potrebbe essere interpretata all’opposto. Se il valore va determinato nell’opera (la prestazione) e non basta il parametro orario per misurarlo, si possono istituire tutele universali come il reddito (minimo o di cittadinanza), una riforma del Welfare o del fisco in senso universalistico. Le alternative sono presenti nel dibattito sull’innovazione.

La prima accelera verso il modello del cottimo postmoderno: lavoro a chiamata via internet, servizi personalizzati, dipendenza assoluta della persona dal mercato. La seconda non rinuncia a un cambiamento generale della società, ma parte dal basso, ragiona pragmaticamente: prima delineare un nucleo di diritti sociali validi per tutti, nel frattempo introdurre norme per elevare le retribuzioni del lavoro e le tutele nella società.

È il caso di applicare quest’ultima alternativa, senza perdere la connessione tra una riforma del mercato e l’introduzione di un welfare universale. Obiettivo in fondo modesto e difficile, difficilissimo, visti i rapporti di forza oggi. Ma necessario.

La sottovalutazione dei sindacati

La reazione dei sindacati ieri ha seguito, non senza ragioni, la prima alternativa contenuta nella tesi di Poletti. Poletti è intervenuto, indirettamente, sulla questione del contratto. Del resto è seduto su una polveriera, qualsiasi cosa dica produce reazioni catastrofiche in rete o tra le parti sociali.

«È molto meglio che il ministro Poletti si concentri sulle politiche attive del lavoro o sull’abuso che si sta facendo dei voucher – ha affermato il segretario confederale Cisl Gigi Petteni – piuttosto che dare indicazioni sul modello contrattuale. Poletti lasci lavorare i contrattualisti del sindacato e le altre parti sociali sulla riforma dei contratti e sulle forme di partecipazione dei lavoratori. Il ministro farebbe bene a portare a termine la riforma del lavoro su cui molti punti sono ancora da chiarire e da attuare per offrire nuove opportunità di lavoro ai giovani, combattere il precariato e gli abusi».

A parlare di “liberismo sfrenato” è Carmelo Barbagallo, segretario Uil. Ho la sensazione – ha detto – che si vogliano far passare per idee di modernità concetti da liberismo sfrenato. Un ministro del Lavoro non può pensare di affrontare temi del genere con annunci spot ad uso giornalistico. Se vuole affrontare questi problemi, noi siamo disponibili a sederci a un tavolo, ma cominciamo dal tema della partecipazione e poi, eventualmente, vediamo se per alcuni specifici lavori si possa ragionare secondo differenti logiche».

La reazione più interessante, per quanto riguarda l’immagine del lavoro e la sua cultura, è arrivata dalla segretaria Cgil Susanna Camusso: «Bisogna smettere di scherzare – ha detto – quando si parla di lavoro». «Ho la convinzione che Poletti stia cambiando il ruolo del lavoro nella vita delle persone». . «Bisogna smettere di scherzare quando si parla di temi del lavoro bisogna ricordarsi che la maggior parte delle persone fa un lavoro faticoso: nelle catene di montaggio, le infermiere negli ospedali, la raccolta nelle campagne, dove il tempo è fondamentale per salvaguardare la loro condizione».

Il perimetro culturale della Cgil

L’affermazione di Camusso è realistica e, allo stesso tempo, sottovaluta la portata delle tesi di Poletti. L’ora di lavoro sganciata dalla retribuzione, l’aumento dello sfruttamento, è un problema in tutti i settori indicati da Camusso. La sua visione rivela un’idea di lavoro parziale, riservata al mondo del lavoro dipendente, manuale, agricolo, lì dove il lavoro è erogazione di energia meccanica. Niente di male, ma è parziale. Oggi lo sfruttamento è altrettanto intensivo nei settori dove il lavoro è relazionale, mentale, informatico.

La scelta dei soggetti del lavoro – effettuata per sintesi, non programmaticamente – non considera il problema di Poletti: immaginare nuovi strumenti contrattuali che tengano conto dei cambiamenti tecnologici. A parte il fatto che tali cambiamenti interessano anche i soggetti indicati da Camusso, l’esigenza “culturale” di Poletti dovrebbe essere raccolta al volo dai sindacati e non solo da loro.

E invece no. Si ripete una costante degli ultimi venti o trent’anni. I sindacati si rifugiano nel perimetro contrattuale dove cercano di portare alcune delle categorie dei “nuovi lavori”. E’ una buona idea, lì dove è possibile ridurre a contratto l’opera di un lavoro che non è salariato. Ma è insufficiente. Il rischio, anche a questo giro, è che lascino il campo libero agli attori che hanno gestito rovinosamente il passaggio dall’epoca del lavoro salariato a quella della precarietà generalizzata. Oggi esistono almeno due generazioni di apolidi del lavoro e del non lavoro, cittadini e non cittadini banditi dalle tutele superstiti della polis: il quinto stato.

La reazione difensiva dei sindacati non promette nulla di buono. Questo atteggiamento ha bloccato, nei fatti, la crescita di una costituzione civile e sociale più avanzata rispetto alla tradizionale rappresentanza dei corpi intermedi fordisti. Innumerevoli sono stati, e continuano ad essere, i tentativi di auto-organizzazione del lavoro indipendente, autonomo, precario. Si sono sempre trovati da soli davanti all’aggressività dei governi e alla rapacità degli imprenditori e di una società brutale. Non che i sindacati possano risultare risolutivi, ma una migliore comprensione della grande trasformazione potrebbe aiutare tutti, anche loro.

Lasciare il campo alle politiche del governo Renzi sull’innovazione può  trasformarsi in un nuovo tragico errore.