Catena allungata, diritti schiacciati. Il commissariamento della filiale milanese di Uber Eats deciso dal giudice di Milano sta scoperchiando «un sistema che non regge». Pur di far guadagnare i giganti delle app le condizioni imposte ai rider sono durissime mentre il guadagno si diluisce anche nelle (spesso false) cooperative che li reclutano come ammettono gli stessi rappresentanti della società intermediaria, sebbene contestino di «aver costretto i lavoratori con la frusta», come fanno i caporali nelle campagne.

IL TERMINE «CAPORALATO» È PERÒ forviante. Il reato contestato è l’«interposizione fittizia di manodopera». La legge 199 del 2016 lo ha infatti reintrodotto dopo che era stato depenalizzato dal governo Renzi all’interno del Jobs act, sostituendolo con semplici sanzioni amministrative.

Fra l’azienda – la multinazionale americana Uber Eats in questo caso – e i rider si frappone una struttura che da un lato fa risparmiare la casa madre sul costo del lavoro e dall’altro la deresponsabilizza sulle condizioni dei suoi «collaboratori». In questo caso la società Flash Road City, che, stando alla indagini, avrebbe svolto intermediazione di manodopera per la filiale italiana del gruppo americano.

Parlare di «caporali» a Milano fa impressione. Sarebbe più corretto chiamarli «intermediari».

Una situazione confermata dalla memoria difensiva dei due attuali indagati: Giuseppe Moltini e Danilo Donnini della Flash Road City. Secondo loro, i rider per Uber sono «solo dei puntini su di una mappa, da attivare o bloccare a loro piacimento con il mero intento di ottimizzare il servizio della piattaforma e far guadagnare ad Uber il più possibile» e «più e più volte ci siamo lamentati» con l’azienda «affinché aumentassero il valore delle consegne, ma tutto è stato inutile, anzi nel corso del tempo tale tariffa è sempre più diminuita in tutte le città», scrivono nella memoria depositata alla Procura di Milano, che ha portato ieri al commissariamento di Uber Italy per caporalato per il servizio Uber Eats. In sostanza, i due ai pm spiegano che era Uber a imporre le tariffe – i fattorini venivano pagati 3 euro a consegna – e le «punizioni» ai rider che venivano «bloccati», ossia veniva disconnessa la loro applicazione, quando non seguivano le regole.

LA LEGGE 199 DEL 2016 VA POI a braccetto con l’articolo 603 bis del codice penale: «intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro». La novità della sentenza di venerdì sta nell’aver commissariato Uber Italia tramite amministratori giudiziari. La legge infatti ordina la cessazione dello sfruttamento e impone di rimuoverne gli effetti: mettere in regola i lavoratori. «Si tratta di una buona legge anche perché non si limita a reprimere ma chiede di attuare la regolazione», spiega l’avvocato del lavoro Pierluigi Panici che nell’ultimo anno ha fatto reintegrare nelle aziende principali che sfruttavano l’interposizione di manodopera decine di lavoratori. «La legge punisce chi incarica gli intermediari di sfruttare la manodopera, la sua valenza penale è ampiamente sotto utilizzata: noi abbiamo presentato parecchi esposti alla procura perché vengano processati i dirigenti delle imprese», conclude Panici.

Intanto l’inchiesta su Uber potrebbe allargarsi. Ai pm di Milano sta arrivando anche il fascicolo aperto dal pm Vincenzo Pacileo della procura di Torino, in seguito a un esposto presentato da alcuni avvocati torinesi sul reclutamento dei rider in città con accuse uguali tramite le testimonianze di sei rider.

UNA VIA PER RIDARE DIRITTI ai rider sfruttati la propone il presidente di Legacoop Lombardia Attilio Dadda: «È sempre più urgente la necessità di costruire un’alternativa alla situazione che ha portato al commissariamento della piattaforma, colosso della gig economy. Siamo impegnati da tempo a misurarci, denunciare e contrastare queste dinamiche che sono particolarmente presenti nel settore della logistica e in Lombardia. L’alternativa può essere rappresentata dalla natura cooperativa del fare impresa. Come Legacoop Lombardia siamo disponibili ad aprire un laboratorio di sperimentazione mettendo insieme valori cooperativi, opportunità digitali e competenze professionali impegnati da anni nell’imprenditorialità e nel sociale, stando dentro le fratture della società».