A metà degli anni 90, per un po’, mi è toccato seguire come corrispondente il campo minato che era la carriera pugilistica di Mike Tyson. A quell’epoca significò coprire una manciata di incontri coi pugili bolliti e semidilettanti scritturati per esser comparse nel grande ritorno di Iron Mike. Già, perché lui era appena stato parcheggiato per tre anni in un penitenziario dell’Indiana, e così anche la sua carriera, che per la verità già prima della condanna per stupro, aveva subito un imprevista deviazione grazie al gancio ben piazzato di Buster Douglas. Ora era il momento del grande rientro orchestrato ad arte da un manipolo di promotori con le mani infilate fino al gomito nelle tasche del campione dalle uova d’oro, l’uomo il cui solo nome bastava per incassare milioni in prevendite pay-per-view.

Come reporter frequentai allora le conferenze stampa pre-incontro organizzate di solito in alberghi di lusso e palestre di Las Vegas; imprevedibili sedute in cui si susseguivano in ordine sparso domande, insulti, analisi pugilistiche, improperi, citazioni autodidatte su Aristotele, invocazioni ad Allah o ai Public Enemy o generiche minacce proferite nell’improbabile falsetto con la lisca che è la voce di uno degli uomini più temibili con cui abbia mai condiviso una sala stampa. Le esternazioni estemporanee o gli scatti d’ira garantivano il tasso di intrattenimento e i fiumi di inchiostro che assicuravano sempre il tutto esaurito.

Come in un vortice salirono sul ring McNeely, Mathis, Frank Bruno di cui ricordo lo sguardo atterrito e la decisa malavoglia con cui scavalcò le corde per beccare le botte che avrebbero chiuso la sua carriera. Una serie di avversari minori – scatole di pelati, come si chiamano in gergo i pugili che si ammaccano facilmente e spruzzano schizzi rossi. Poi nel ’96 venne Holyfield, un pugile vero – e una prima vera sconfitta. Iron Mike non la prese bene. Il suo «gran ritorno» finì nell’incontro-rivincita con la Belva di Brownsville ringhiante in mezzo al ring e un pezzo di orecchio di Evander sul tappeto insanguinato dell’Mgm Grand. Sarebbero seguite altre squalifiche e altre condanne. Nuove visite in galera, gozzoviglie monumentali e la bancarotta, canonica tappa di mille campioni sfiniti, rintronati dai cazzotti, dagli stupefacenti e dalle bugie dei cattivi consiglieri. Ancora qualche dimenticabile round contro semisconosciuti suonati, una batosta rimediata a Memphis contro il campione inglese Lennox Lewis e poi il nulla: incontri d’esibizione, tournée all’estero, il wrestling come Primo Carnera. La gogna per ramazzare gli ultimi spiccioli e cercare di tappare la voragine dei debiti. Mike Tyson pareva avviato sulla strada ben battuta dei Jake La Motta e dei Leon Spinks e tanti altri sgangherati predecessori finiti a vendere autografi in ristoranti di perifeira o, peggio, al verde e a faccia in giù nel dimenticatoio crudele della boxe.

Tyson però non era quegli altri; lui era Tyson. Quello che dei benpensanti se ne infischiava bellamente, e di tutti gli ipociriti paladini dell’atleta virtuoso, gli stessi che poi reclamavano il sangue a bordo ring. Anzi lui li provocava, rivendicava l’istinto criminale che i moralisti avrebbero preferito dissimulare, l’utile arte del teppista da strada affinato in macchina da KO (e dollari). Si può discutere (e si discute) sul posto che merita nel panteon del pugilato. Gli esperti lo collocano se non nella top ten, di certo nella top 20 dei pesi massimi i tutti i tempi. Ma forse non è propriamente per la boxe che ricorderemo l’ultimo dei grandi pesi massimi, uno che sul suo tetto di Brooklyn, per dire, allevava i piccioni come Brando in Fronte del Porto, come in un film. La sua vita è stata una sceneggiatura improbabile: la criminalità giovanile, il rapporto contorto con la madre alcolizzata, prostituta, violenta, un futuro già segnato dalle manganellate rimediate in questura. Poi è assomigliata ad un reality, il mostro del ring, la notorietà e la celebrità. Lo strascico di scandalo.

La recita di Tyson ha molte varianti ma a differenza di prima forse il regista adesso è lui. Oggi ha un reality «vero», sulla Fox (Being Mike Tyson), uno spettacolo su Broadway diventato un film diretto da Spike Lee, forse un prossimo film nientemeno che di Werner Herzog. Mike lo showman ha vinto pure un Golden Globe, tre anni fa, per la cameo nella Notte da Leoni di Todd Phillips. Poi c’è l’autobiografia (Undisputed Truth) e lo spot pubblicitario (Foot Locker) in cui riporta l’orecchio mozzato a Holyfield con tante scuse. Il Tyson show continua, l’importante è non scrivere mai The End. Quando lo vedi da vicino la prima cosa che ti colpisce è la modesta statura: 1.76. Poi il sorriso pacifico che non ti aspetti, da mostro in pensione. «Sono sobrio da 100 giorni», dice, «è il risultato di cui vado più fiero nella mia vita». Un po’ showman un po’ orso ammaestrato, in questo assolato pomerigggio californiano, Iron Mike non si stanca di parlare del suo argomento preferito, quello del libro e dello spettacolo, quasi un ossessione: se stesso.

C’è gente che per passa anni in analisi a cercare di conoscere se stessa. A lei l’introspezione viene naturale?

Di sicuro non da sempre, negli ultimi anni forse, non so 10..8. Non se questo sia un segno di saggezza. Il fatto è che chi, come me, non sa accettare consigli da nessuno, deve sapersi auto-esaminare. Personalmente sento di dovermi tenere sotto controllo ogni giorno. Mi sono comportato da gentiluomo? Ho mancato di rispetto a qualcuno? Ho meritato che mi si mancasse di rispetto? Ho trattato male qualcuno? Certe cose devono esser onestamente esaminate se ci si prefigge di vivere in un certo modo, ed è inevitabile sbagliare. Io oggi vivo una vita «premeditata» – non posso più tanto permettermi la spontaneità

E quindi scrivere l’autobiografia l’ha aiutata?

In realtà non posso dire che mi sia stato di particolare aiuto o che sia stato uno sfogo terapeutico. Scrivere quel libro non è stato facile perché ho dovuto rivangare la mia infanzia e non è stato bello o facile. Stare su quel palco invece mi è piaciuto un casino. Sentivo l’energia del pubblico in sala e mi sembrava di poter essere obbiettivo, era come se stessi raccontando la vita di un altro, con distacco. Per fare il libro invece il mio scrittore, Larry Sloman, mi ha fatto il terzo grado e tu sei lì, e devi rispondere anche alle domande più difficili, non puoi recitare: «questo lo hai fatto?» Si o no? Non si scappa. E poi rivivi quei momenti e lì si mette male. La prima volta che ci abbiamo provato l’ho mandato via, non ce la facevo a ricordarmi tutto l’alcol e la droga che mi ero fatto. Quando ci siamo rivisti due anni dopo, mi ero sposato ed ero sul lastrico e mia moglie mi ha detto «guarda che ‘sto libro prima o poi qualcuno lo scrive, quindi tanto vale che sia tu. Che i tuoi figli certe cose le sentano dalla tua bocca». È stato davvero doloroso ma alla fine ce l’abbiamo fatto ed è la verità.

Nello spettacolo dice che da dove viene lei i ricordi non si incorniciano, si cerca di dimenticarli. C’è un bel ricordo che conserva di quand’era bambino?

No. Non nel senso normale del termine. Per me un bel ricordo è una rapina, e quello che mi insegue e viene investito da una macchina e io me la svigno col bottino (ride). Non è buffo ma quando ero bambino erano questi i bei ricordi, quando non mi acchiappavano.

Ricorda la prima volta che ha menato qualcuno?

Sì (ride). Era quando tenevo i miei piccioni e un tizio ne ha ucciso uno. Ho dovuto affrontarlo, non è che gli ho spaccato il culo, solo che gliene ho date più di quante ne ho prese, è stata la mia prima vittoria.

E sua madre?

Mi ha insegnato un sacco di cattive abitudini. A volte sono molto volgare ed è una cosa che sto ancora cercando di cambiare. Ma era così. Era mia mamma e a mia mamma io non piacevo, soprattutto dopo che ho conosciuto Cus D’Amato. Non avevo veramente ancora un senso di me stesso e Cus mi ha riempito la testa di un sacco di idee sull’autostima e quando sono tornato da mia madre mi sono messo a dirle quanto ero forte e che sarei stato il più grande, il campione dei massimi e che era meglio se nessuno mi si mettesse davanti. E lei non l’ha presa bene perché diceva che Cus mi aveva lavato il cervello, che dovevo abbassare la cresta. Ma così è, va tutto bene, lei era mia madre e io le voglio bene, è solo che non aveva le carte per vivere una buona vita, né lei né mio padre. Non vuol dire che io sia meglio di loro, solo che ho avuto la fortuna di avere qualche opportunità in più. Lei era mia madre e io le voglio bene. È tutto quello che ho da dire.

Fa fatica a tenersi sobrio?

Certo che sì. Io sono un tipo che riga dritto per cinque anni e poi ci ricasca, altri quattro anni, e poi giù di nuovo. Se sapessi smettere da ora fino alla fine sarebbe una gande cosa ma non è così. Basta una cosa qualunque e va tutto in malora: troppo odio, troppo amore, emozioni, luoghi o persone, il mio stesso ego può provocarmi un episodio. Adesso ad esempio mi sento bene, benissimo, e questo può essere un problema. La mia mente funziona così, c’é qualcosa che non va. Un cicchetto è uno di troppo e mille bicchieri non bastano mai. Sono fatto così; è questa la malattia con cui devo convivere, e non conosco nessuno che possa aiutarmi tranne me.

Ha dichiarato che c’è stato un momento in cui ha pensato di farla finita. È così?

Sì, c’è stato un momento che mi sembrava di essere stanco di vivere. Non so perché, forse si trattava semplicemente di una manifestazione della mia malattia mentale, a volte accade quando sono depresso o quando sono fatto…

Si considera malato di mente?

Diciamo che non credo che la gente normale pensi come me. Se fossi normale non starei a ubriacarmi e drogarmi. Non sono certo l’unico. Viviamo in un paese di droga in un mondo di droga, e io non ho l’esclusiva su questa malattia

Allo stesso tempo sembra molto sereno, cos’è che la fa sentir bene?

Questo. Quello che sto facendo ora, salire su un palco e parlare al mondo, di qualunque cosa, e non intendo di quanto io sia grande perché quelle sono stronzate. Io non misuro il successo come grande attore o grande pugile. Per me il successo vero è star fuori di prigione, non morire per strada, non tradire mia moglie o abbandonare i miei figli. Quindi al momento ho molto successo. Posso imparare a fare tutto, anche vincere un Oscar, ma la vera battaglia è con me stesso. Se riesco ad essere un normale padre di famiglia, ad essere premuroso e non imbestialirmi. Quella è una vittoria.

Torniamo alla spettacolo nel film sembra davvero suo agio…

Adoro recitare, a volte penso di essere nato per stare davanti ad una cinepresa. Anche nel mio momento peggiore in fondo la mia vita era solo un reality. È ciò per cui sono nato, anche mio padre era uno showman; faceva uno show in chiesa quando cantava il gospel e ne faceva un altro quando lavorava da magnaccia. È una performance pure quella, controlli la tua immagine e tutta l’attenzione è su di te. Forse la mia fissazione viene da lì.

In alcuni film come «Notte da Leoni» lei si reinterpreta in chiave autoironica e ora c’è un sacco di gente che conosce solo questa versione

È vero c’è una nuova generazione che non mi ha mai visto combattere, ragazzi giovani, 10-12 anni. Ogni tanto mi capita di sentire un bambino che dice «guarda mamma, è quell’attore, Mike Tyson» e i genitori gli devono spiegare che ero un pugile, per loro sono ancora un pugile. Mi stanno bene tutti e due, sono felice di recitare e più di tutto dal vivo.

Interpreterebbe un pugile in un film?

È una questione interessante. Quando un attore interpreta un pugile non ha mai o quasi mai un idea del vero pugilato, non sono cose che puoi imparare al volo. Infatti da quel punto di vista le scene di boxe nei film sono disastrose. Ma si tratta invece di raccontare l’essenza del combattimento e l’idea del pugile. Se prendi i film di Rocky i combattimenti sono ridicoli ma invece azzeccano la determinazione e la perseveranza dei pugili anche nelle circostanze più deprimenti e degradanti. Ti possono stendere una volta, due volte, ma tu non ti arrendi, ti rialzi, lo vuoi metter al tappeto. E questo è tutto «vero». È quello che deve raccontare un buon film di boxe più della tecnica pugilistica. Alla fine è questo che ti rende un campione. Senza la voglia e l’ossessione puoi essere il più tecnico dei pugili ma non sarai un campione.

Che rapporti ha coi Mussulmani Neri d’America?

Non ne so nulla. Sì, è vero, sono mussulmano e sono nero, ho bisogno di Allah per la mia salvezza. Tutto qui. Voglio essere un buon mussulmano, voglio amare tutte le creature di Dio. È quello che ho scelto per la mia vita. Essere mussulmano non vuole certo dire farsi saltare in aria e uccidere le persone. Quelli sono mussulmani terroristi. Io voglio cercare di essere un semplice servitore di Allah. Di sicuro fallirò molte volte, certo, ma intendo rialzarmi e provare nuovamente è quasto il mio rapporto con l’Islam.

È stato ispirato da Muhammad Alì?

Naturalmente amo e rispetto Muhammad Alì, ma non perché è mussulmano. Lo ammiro per la sua presa di posizione coraggiosa contro la guerra in Vietnam, o per quegli incontri massacranti in cui è riuscito a prevalere.

Per un sacco di pugili la fine non è bella. Dopo la carriera c’è il nulla, o peggio. Lei invece sembra rinato…

Non è certo perché io sono migliore di loro o più intelligente, assolutamente no. Ho solo avuto al fortuna di avere un migliore sistema di supporto. Lo dico sempre a tutti, penso sempre a Leon Spinks, peché quello sono io. Avete presente Spinks (ultimo avversario battuto da Ali, ndr), lui è suonato, giusto? La gente lo vede e lo sfotte, è un clown. Beh quello potevo essere io. Ma ho avuto la fortuna di incontrare persone nei momenti giusti che mi hanno impedito di seguire la solita strada dell’ex-pugile. Eppure anch’io ho fatto la droga, le bibite e le donne come loro, la vita tutta la notte – i bassfondi. Alla fine però mi sono trovato a fianco una buona donna e un sacco di buoni amici. E ho avuto fortuna. Dico solo questo, sono stato maledettamente fortunato.