Sembrava che Anne Tyler dopo Una spola di filo blu, il suo ventesimo romanzo-congedo su generazioni a confronto come in vecchie polaroid, si sarebbe goduta il riposo degli ultrasettantenni. O così aveva promesso. Ma ci si è messa di mezzo la Hogarth Press con la sua idea pubblicitaria di far riscrivere Shakespeare agli scrittori di oggi: Atwood (Tempesta), Winterson (Racconto d’inverno), Chevalier (Otello)… Facile sbagliare davanti a un progetto così impegnativo, anche se i recensori hanno notato che è solo giusto che il notorio ladro di trame Shakespeare sia a sua volta o continui a essere plagiato.
Comunque si può solo essere contenti se Tyler si mette a scrivere, e Una ragazza intrattabile, efficacemente tradotto da Laura Pignatti (Rizzoli, pp. 205, € 19,50), non delude le aspettative. Oltre a offrire magari l’occasione di rileggere la sua fonte, La bisbetica domata, scoprendo come Shakespeare si diverta a descrivere la vita di osteria nel prologo, e come alla vicenda più nota di Caterina ne appiccichi un’altra di travestimenti plautini riguardanti la sorella mite, Bianca, che alla resa dei conti si scopre essere tutt’altro che mite. Baptista è il nome del padre padovano di Caterina e Bianca, che annuncia che nessuno sposerà la corteggiata Bianca finché qualcuno non impalmerà l’intrattabile Caterina. E Louis Battista è il ricercatore vedovo di Baltimora che vive con le figlie Kate e la quindicenne Bunny in un tipico caos calmo alla Tyler. Sappiamo infatti che Tyler al suo solito ci presenterà una galleria di amabili eccentrici, che grazie alla sua arte creaturale non restano macchiette ma ci coinvolgono nei loro stratagemmi per sopravvivere. In una casa dove Kate prepara una volta alla settimana un rancho immondo di carne e fagioli che poi viene consumato nei giorni successivi, e dove la lavastoviglie viene caricata dopo ogni pasto e fatta partire a intervalli regolari secondo uno schema complicato per cui in effetti i tre familiari non sanno mai se i piatti che ne prendono sono lavati o no.
Kate ha 29 anni ed è poco incline alle amicizie, in un mondo gradevolmente fuori dal tempo dove i telefonini sono a mala pena tollerati ma esistono ben poche altre distrazioni. Lavora in un asilo e viene redarguita dalla direttrice perché d’ogni tanto non accoglie bimbi e madri con un sorriso smagliante… Non si pensi che Tyler perda tempo (suo e nostro) in descrizioni oziose. Come in una miniatura olandese, ogni dettaglio è a fuoco, e tutto illumina l’impalpabile trama del vissuto per cui Tyler ha una insuperata sensibilità. Non fa generalizzazioni, ma fa capire. C’è qualcosa di strano e avvincente e… buono in questo tran tran umano che sembra misero e insensato (ma non a lei). E infatti la vita è piena di sorprese. Tanto per cominciare le persone non sono fatte con lo stampino. «Tutti cominciamo la giornata ascoltando la musichetta dell’avvio di Windows», ha detto qualcuno. «Perché ci vogliono tante vite quando sono tutte uguali?». Per Tyler non sono uguali, anzi. E il lettore naturalmente gode dei piccoli scarti che fanno la curiosità e la gioia del tempo.
Anne Tyler è vedova di uno psichiatra iraniano, e non di rado nei suoi libri si confrontano culture e classi sociali diverse. Qui il patetico ma calcolatore dott. Battista ha un assistente di laboratorio russo, Pëtr Scerbacev, «un uomo solido, muscoloso, con i capelli biondi lisci», che dice ancora «ragazze» anziché (lo corregge subito Kate) «donne». («Sì, anche loro, le nonne e le zie», fraintende lui.) Battista ha faticato parecchio per fargli avere un visto, e ne ha assoluto bisogno per portare avanti una ricerca pluriennale che magari gli guadagnerà un Nobel ma in cui nessun collega crede troppo. E ora il visto sta per scadere e il buon dottore con la testa nelle nuvole pensa che una soluzione efficace potrebbe essere un matrimonio di Pëtr con Kate, che comunque nessuno ha mai cercato, e fa di tutto per farli incontrare. Non tanto perché pensa che scoccherà una scintilla, ma per poterli fotografare insieme ed eventualmente dimostrare all’occhiuto Ufficio Immigrazione che non si tratta di un matrimonio puramente di facciata (come invece deve essere).
Improbabile? No, visto che Tyler ci ha fatto capire quanto fuori dal mondo sia questo papà Battista. La storia comunque è quella di Kate, che non manca di risentirsi quando comprende il cervellotico piano. E noi ci sediamo tranquillamente per goderci un’altra puntata del suo confronto con una realtà poco accomodante, con l’idea stessa della sua vita. Pëtr non è (nonostante l’omonimia) un Petruccio prepotente domatore di una Bisbetica: è affabile, ridanciano, cordialone, coraggioso quanto impaurito (in quanto straniero e in quanto… maschio). Kate gli piace. E lui comincia a piacere a Kate. Che intravede la possibilità di sfuggire a una situazione famigliare pesante: la malefica sorellina Bunny da sorvegliare, il padre che non le bada chiuso nei suoi progetti, le colleghe pettegole dell’asilo. Lei poi ha smesso di studiare, chissà, potrebbe ricominciare. Quando si viene al dunque si scopre che l’egocentrico dottore prevedeva che Kate continuasse a stare con lui e che Pëtr si sistemasse in casa alla bell’e meglio. E qui il papà non fa i conti con la voglia d’indipendenza di Kate e con… l’amore.
Anch’esso improbabile, non detto, eppure molto ben presentato dalla impeccabile Tyler. Oggi tutti sono così scafati, non c’è romanzo che non ci familiarizzi subito con i genitali dei protagonisti. Per fortuna esistono invece gli imbranati di Tyler (ce ne saranno anche fuori dalle sue pagine?) per cui i rapporti personali sono fatti di minimi indizi impacciati. In Povero bianco, ottimo romanzo scritto da Sherwood Anderson un secolo fa, c’era una storia toccante di due persone di ceto diverso che si sposano di punto in bianco e per qualche tempo non riescono nemmeno a trovare una minima intesa coniugale. La narrativa (ma anche la vita) gode degli inciampi che si frappongono all’intesa, quale che sia, o comunque al procedere degli eroi. Intendo che sono spesso fatti minimi dei rapporti interpersonali che acquistano rilievo nei pensieri delle persone, che so, il ricordo di qualcosa che uno ha detto che ci riguardava. Mentre i grandi eventi rimangono relegati su uno sfondo indistinto.
Così nella sua lucida miniatura o specchio Tyler fa muovere le sue figure credibili. Tutto è descritto con attenzione e precisione, ma si sente quasi sempre una certa aura di vissuto, per cui quello che si vede conta. Quando Pëtr mostra a Kate la casa dove vive presso due donne (anche queste ovviamente centratissime e imprevedibili), leggiamo: «Le scale davanti a lei erano inondate dal sole, e più lei e Pëtr salivano, più l’ambiente diventava luminoso…». È un buon auspicio. Kate ha deciso che andrà a vivere con il marito, ma non ha ancora deciso in che senso e che modo sarà suo marito. Agli inciampi interni se ne aggiungeranno, giustamente, di esterni, che metteranno tutto in pericolo fino all’ultimo momento. Tanto maggiore il nostro godimento, quando Pëtr ripeterà almeno due frasi di Shakespeare: «Lei sposa me, non miei vestiti». E: «Baciami, Katja».
Non anticipiamo troppo rivelando che nell’epilogo appare un figlio di 6 anni, descritto nell’atto di prepararsi (mentre la mamma va a Washington a ricevere un premio di botanica) un sandwich fatto di «ketchup, sardine e banane». La Tyler non si smentisce: nulla potrà mai omologare lei, il suo mondo e (speriamo) i suoi lettori.