È bastato un tweet del presidente Donald Trump sul ritiro dei soldati Usa dall’Afghanistan per mandare in fibrillazione il governo di Kabul, alle prese con un difficile negoziato di pace con i Talebani a Doha. E per far festeggiare gli “studenti coranici”, che lo scorso febbraio hanno incassato uno storico accordo con gli Stati Uniti. L’accordo prevedeva il ritiro delle truppe straniere entro 18 mesi dalla firma. Un piano di ritiro graduale e condizionato al rispetto da parte degli eredi di mullah Omar degli impegni nel contro-terrorismo. Ma Trump ha fretta di incassare elettoralmente quell’accordo.

Così mercoledì, poche ore dopo che Robert O’ Brien, il suo consigliere per la sicurezza nazionale, annunciava l’obiettivo di portare all’inizio del 2021 a 2.500 (dalle attuali 4.500) le truppe Usa in Afghanistan, Trump lo contraddiceva via Twitter. “Entro Natale i nostri coraggiosi uomini e donne” saranno a casa. Tutti.

L’obiettivo non è realizzabile, il Dipartimento di Stato, il Pentagono e il Consiglio di sicurezza nazionale non ne sapevano nient. Ma conta poco. Conta l’annuncio, l’effetto mediatico ed elettorale che sortisce, conta l’idea che la promessa reiterata di “finire le guerre inutili” venga rispettata, almeno a parole. Parole che hanno un valore performativo. Creano una nuova realtà. Così era avvenuto il 7 settembre 2019, quando Trump ha annunciato a sorpresa l’interruzione del dialogo coi Talebani, appena prima della firma di un accordo politico poi raggiunto nel febbraio successivo. E così è avvenuto mercoledì scorso.

Giovedì i Talebani hanno accolto con soddisfazione l’annuncio-social di Trump sul ritiro. E sono tornati a sedersi al tavolo negoziale con il fronte “repubblicano” da una posizione di maggiore forza. Il negoziato intra-afghano cominciato il 12 settembre è fermo per dissidi sulle procedure da seguire e sulle priorità dell’agenda. Ma anche per l’enfasi che i Talebani attribuiscono all’accordo con gli Stati Uniti, da cui era escluso il governo di Kabul, che oggi rivendica autonomia e sovranità decisionale, pur sapendo che ne ha poca.

Conta l’atteggiamento di Washington, a cui sono rimaste due leve principali per condizionare la postura dei Talebani: truppe sul terreno e danari. Con il ritiro completo, viene meno la prima. Rimangono i danari, senza i quali crollerebbe l’intera architettura istituzionale afghana, a partire da esercito e polizia, circa 300.000 persone. A Trump del futuro dell’Afghanistan, degli afghani e delle afghane che muoiono e che più volte ha detto di poter sterminare, non importa nulla. Gli importa un secondo mandato. Per questo chiede al suo inviato Zalmay Khalilzad di offrirgli un capitale simbolico da giocare alle presidenziali del 3 novembre.

Potrebbe essere un accordo tra Talebani e Kabul su una parziale riduzione della violenza, che finora ha riguardato solo lo scontro Usa/Talebani. Khalilzad nei giorni scorsi era a Islamabad, con il generale Austin Miller, comandante delle forze Usa in Afghanistan, per incontrare il Capo di Stato maggiore dell’esercito pachistano, il generale Qamar Jaaved Bajwa. Tutti convinti che questa sia l’occasione buona e che, così il comunicato finale, “occorra evitare gli errori del passato”. Ma continua l’errore di rafforzare diplomaticamente i Talebani, indebolendo il governo di Kabul: il numero due degli studenti coranici, mullah Abdul Ghani Baradar, non ha trovato tempo per incontrare il presidente afghano Ashraf Ghani, in visita a Doha nei giorni scorsi. Lo ha trovato invece per l’incontro con Stefano Pontecorvo, Alto rappresentante civile della Nato in Afghanistan.