Trascorsi un po’ di mesi dal risultato del 4 dicembre e archiviato il clima parossistico dell’ultimo anno, c’è spazio per ragionare sine ira ac studio sui rapporti tra tv e politica nel nostro paese.

Partendo subito da un dato evidente: l’abissale differenza nei tiggì, pubblici e privati, tra il tempo un dì riservato a Renzi e quello oggi assegnato a Gentiloni.

Che in tutti i telegiornali (dalla Rai a Sky) si è ridotto drammaticamente: se in Rai,infatti, gli ultimi mesi del 2016 avevano consegnato dal 20 al 25% del tempo di parola al premier, nei primi due mesi dell’anno siamo, rispettivamente, all’11,7% a gennaio e al 10,4% a febbraio (tabelle Agcom); come parimenti si dimezzano o si riducono fino ad un terzo le percentuali, a volte ancora più alte, del premier sui tg di Mediaset, di La7 e di Sky.

Non solo: i numeri invece di Geca Italia attestano, più in generale, che Gentiloni va in tv (sia nei tg che nei programmi d’informazione) per circa 28 ore totali negli ultimi due mesi, mentre il suo predecessore tra settembre e dicembre c’era stato per quasi 150 da premier e per 28 da segretario Pd.

A leggere questi report la prima e più elementare osservazione è che Gentiloni non gode, per scelta o per necessità, dell’esposizione alluvionale del suo predecessore. Sceglie (per decisione politica), o subisce (per indole), al contrario di chi l’ha preceduto, un profilo basso su media vecchi e nuovi (settore che pure conosce avendovi esercitato ruoli di primissimo piano).

Detto questo è bene anche aggiungere che l’esuberante presenza in video dell’ex presidente del consiglio non è stata legata ad una speciale contingenza politica, né ad un incrocio di costellazioni stellari: i tre anni del suo mandato sono stati da subito segnati da un eccesso di visibilità, con percentuali, come altre volte documentato, attestatesi quasi sempre su valori assolutamente inediti, del tutto anomali rispetto al passato.

Al di là del “di più” che ci ha messo di suo, l’ex premier ha comunque interpretato una tendenza in atto da parecchi lustri nel paese: il “direttismo”, la ricerca cioè da parte del leader di un rapporto diretto con i cittadini, saltando tutte le mediazioni possibili, in primis partiti e giornalisti.

In questo Renzi non ha fatto che mettere a frutto, amplificare e portare a regime un modello che aveva visto la luce negli anni novanta, addirittura già con Cossiga, poi soprattutto con Berlusconi, e senza dimenticare D’Alema («se devo dire qualcosa vado in televisione», «è un segnale di civiltà lasciare i giornali in edicola»).

Il cortocircuito politica-tv, a sinistra, si era già realizzato, ahinoi, con D’Alema premier che va a cantare da Morandi il sabato sera (non era mai accaduto): dopo di lui tutti i leader del centrosinistra, esclusi Prodi e Veltroni, hanno giocato al tavolo della politica la carta del rapporto diretto con il paese.

Ma la “disintermediazione” non è detto che sia sempre un bene e che aiuti la politica a fare meglio il suo lavoro. E nemmeno che garantisca sempre consensi.

Anzi, si chiami democrazia del leader’ (Calise) o democrazia del pubblico (Manin), l’impressione che si trae è quella dell’estrema volatilità delle leadership costruite su queste basi, come anche l’esperienza di Renzi insegna.

Infine c’è la questione di fondo che l’esito del 4 dicembre squaderna: come sia accaduto che nonostante un colossale spiegamento di forze mediatiche, e parliamo non solo della tv che è stata di gran lunga l’arma più usata, ma di twitter, facebook, della radio, l’ex premier abbia perso la partita più importante.

Dobbiamo dedurne che la tv non conta? Che i nuovi media siano già vecchi? Oppure che, se abusati, i mezzi di massa generano, più che seduzione e consenso, saturazione e rifiuto? Ma soprattutto che lezione può trarre la politica a conclusione di una lunga stagione giocata sulla sua mediatizzazione estrema?

Perché il rischio, come afferma Salmon, è che questa si trasformi in una “cerimonia cannibale” con i politici che si autodivorano, vittime del loro stesso sovrarappresentarsi.

Sono nodi da sciogliere, su cui i leader dovranno riflettere bene. A giudicare da certi numeri forse Gentiloni lo sta già facendo.