Quando il metodo della moda s’insinua nel racconto del sociale attraverso una riflessione artistica, i risultati rischiano di essere discutibili ma di sicuro sono sorprendenti. È stata appena inaugurata a Milano, alla Fondazione Prada dal 9 maggio al 24 settembre, TV 70: Francesco Vezzoli guarda la Rai, un progetto concepito dall’artista e sviluppato in collaborazione con la Rai. Spiega l’artista: «Con questo progetto ho voluto realizzare un percorso rischioso, duro quando l’argomento lo richiede, ma anche divertente e surreale. Un’indagine vera sul costume contemporaneo e sulle sue radici, ma con un senso critico sull’oggi.
La televisione degli anni Settanta produceva riti e, di conseguenza, miti assoluti e duraturi che ancora oggi, riproposti in questa mostra, possono ispirare scelte non convenzionali». Conoscendo il lavoro di Vezzoli, l’aspettativa andrebbe verso un’esposizione che combina la spettacolarità della televisione di quegli anni con un approccio socio-glamourizzante. E la sorpresa è trovarsi di fronte a un racconto storico, anche molta consapevolezza critica, della società italiana degli Anni 70.

E il riassunto lo si trova nella grande sala in cui un’installazione che ricorda perfettamente i disco club, come venivano anche ripresi negli spettacolini televisivi e nelle riprese del Piper, su un grande telone sono proiettati i documenti delle manifestazioni femministe per il divorzio e l’aborto, compreso un (impensabile oggi) annuncio della «signorina buonasera» Nicoletta Orsomando che dallo schermo in bianco e nero informa che «da oggi anche in Italia le donne hanno diritto all’interruzione di gravidanza non clandestina», ed era il 22 maggio 1978.
La mostra, realizzata con il supporto curatoriale di Cristiana Perrella e il percorso espositivo ideato da M/M (Paris) – Mathias Augustyniak e Michael Amzalag – si basa sull’incontro tra dimensione spaziale e temporale in un palinsesto che combina documenti video degli archivi delle Teche Rai accostati alla materialità di dipinti, sculture e installazioni.
La mostra si articola in tre sezioni che affrontano le relazioni della televisione pubblica italiana con l’arte, la politica e l’intrattenimento e si conclude nel Cinema della Fondazione Prada con una nuova opera di Francesco Vezzoli, Trilogia della Rai (2017), accanto ad Applausi (1968) di Gianni Pettena .
Fin qui la godibilità di una mostra che, mescolando l’alto e il basso, rivaluta il vero significato del Pop come cultura popolare inclusiva, tanto che l’artista dichiara di essere entrato nelle teche Rai «dove pensavo di trovare la Carrà e invece ho trovato la Storia».

La riflessione, però, si poggia proprio sul luogo dell’esposizione, cioè la Fondazione Prada che è diventato in poco tempo un punto di riferimento dell’arte internazionale (va specificato che la Fondazione appartiene a due privati, Miuccia Prada e Patrizio Bertelli, e non alla società Prada,.

Detto questo, è evidente che è proprio il metodo che Miuccia Prada utilizza per concepire la sua moda a richiedere e a formare le linee guida della mostra. Che è la capacità di mescolare i linguaggi, di assegnare agli abiti l’espressione di un’idea (che può anche non piacere, come ieri ha scritto la mia vicina di rubrica Mariangela Mianiti in «Habemus Corpus», di riflettere su di essi il racconto sociale di donne e di uomini che non sono «non pensanti» solo perché amano la moda.

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