La Fondazione Prada è una realtà museale-espositiva-culturale-fashion ricercata e di ricerca, che incastona mostre tra il bar griffato dal regista Wes Anderson, il Cinema d’essai e le opere della collezione, scalate nella Torre progettata da Rem Koolhaas. Sarebbe semplicistico, oltre che masochistico, snobbare questo luogo perché nato sulle regole del mercato, del marketing e del gusto. E non solo ci perderemmo un’occasione per conoscere il mondo (culturale) con cui dobbiamo fare i conti, ma mancheremmo nel dovere d’interrogarci a ragion veduta su quale sia il compito delle istituzioni pubbliche, chiamate a giocare un ruolo imprescindibile solo se pragmaticamente complementare a chi si muove con libertà e risorse difficilmente equiparabili. La Fondazione Prada, insieme all’Hangar Bicocca, non sta solo colmando un vuoto nella proposta di livello internazionale sul Contemporaneo a Milano, ma, fin dall’apertura, sta impiegando i propri capitali per realizzare i sogni curatoriali di storici dell’arte e, in particolare, di artisti che hanno qualcosa da dire. Aver scelto di inaugurare, tre anni fa, con la mostra dedicata alla serialità dell’arte classica curata da Salvatore Settis, o di sostenere la mastodontica e titanica prova di forza di quest’anno, affidando a Germano Celant un’esposizione dedicata all’arte tra le due guerre, al netto delle critiche puntuali sempre sollevabili, mostra che «sotto il vestito» c’è parecchio.
Senza tener conto di questo scenario, degli attori messi in campo, e delle domande che pone, sarebbe improprio guardare alla mostra orchestrata da Luc Tuymans, pittore belga non nuovo alla curatela, e dedicata alla sua idea di Barocco (Sanguine, fino al 25 febbraio). La mostra è una versione riveduta e ampliata di quella allestita al Museo d’Arte Contemporanea di Anversa fino allo scorso settembre. Il confronto-cortocircuito tra la Flagellazione di Caravaggio a Capodimonte e l’opera Five Car Stud di Edward Kienholz ha aggregato intorno a sé una scelta di opere del Seicento e Contemporanee, chiamate a tessere un dialogo intorno al tema del Barocco, con i suoi sfuggenti attributi di effimero e truculento. L’opera di Kienholz è una messa in scena a grandezza naturale – con tanto di automobili – dell’evirazione pubblica di un giovane ragazzo afroamericano, accusato di aver avuto rapporti sessuali con una ragazza bianca. Di proprietà della stessa Fondazione Prada e visibile in un (troppo) recente allestimento della collezione, l’opera è sostituita nella tappa milanese da Fucking Hell (2008) di Jake e Dinos Chapman: una serie di campi di sterminio, allestiti in grandi parallelepipedi di vetro, in cui sessantamila soldatini sono intenti a procurarsi e subire torture di ogni genere. Anche uno dei due Caravaggio cambia per l’occasione e, al posto della Flagellazione, arriva il David con la testa di Golia della Galleria Borgese, perfino più efficace nel mostrare la truculenza del decapitato, per giunta un autoritratto. Si tratta di un binomio che, ad Anversa come a Milano, non costituisce un affiancamento fisico delle due opere, ma il perno ideale, intorno al quale allestire l’immaginario del curatore. Il visitatore è chiamato ad abbandonarsi alle visioni cui si è dato corpo e alla qualità, in alcuni casi straordinaria, delle opere, più che a cercare risposte – non dico condivisibili ma certo intellegibili – sulla componente barocca dell’arte contemporanea o sulla modernità dell’arte del Seicento.
Del resto, anche l’allestimento sembra scongiurare ogni semplicistica aspettativa scenografica e illusionistica, stemperando come si conviene ogni turbamento fuori riga. E non solo nella prima delle tre grandi sale della mostra, l’algida Galleria Nord, ma anche nei due piani del cosiddetto Podium, dove le opere sono disposte paratatticamente lungo le pareti, in una successione paritetica che non esclude le contaminazioni, ma che si guarda bene dall’indicarne alcune. Più che lo svisceramento o l’esemplificazione di un tema, a rimanere indimenticabili saranno alcune delle visioni create, come quella dei tre cavalli di Berlinde De Bruyckere che, scendendo le scale, ti tolgono il fiato ad apertura del pian terreno, rinnovando lo strazio sperimentato all’indimenticabile mostra sulla guerra, allestita al Mart di Rovereto da Cristiana Collu. Più che alle instagrammabili sculture di Mark Manders poste a favore di vetrata, spetta alla stanza centrale del Podium precisare le suggestioni più riuscite, dando vita a tre direzioni di scambio con il Seicento, possibili e identificabili. Marlene Dumas, con il primo piano di una testa sanguinante, mostra l’eternità di un tema affine al Caravaggio poco distante. Il duo Arocha Schraenen, con una grande scultura geometrica di specchi, mostra la declinazione contemporanea della multivionarietà illusiva e simbolica del Barocco architettonico, inglobando e deformando la realtà delle opere che la circondano. Thierry De Cordier, infine, prende il tema della Crocifissione e lo sublima annullandolo, sostituendo al culmine del dramma la scritta «I.N.R.I» con il termine spagnolo «Nada» e facendo calare l’intera scena nel profondo di un nero che sembrerebbe senza ritorno.
Sanguine è una mostra aperta che non lascia indifferenti se si è disposti a mettersi in gioco, scegliendo la propria suggestione interpretativa, distillando i temi che travalicano i secoli, e godendo della responsabilità dell’arte, che non si esime dalla partigianeria dei sentimenti, alle prese con la nostra necessità d’esistere