Conoscere l’esatta provenienza del cibo che mangiamo è impresa ardua. Se compriamo una bella zucca arancione, magari nel supermercato sotto casa, sarà comunque impossibile conoscere l’origine della pianta (per esempio se derivi da semi antichi o da una selezione industriale; se i semi siano autoprodotti in azienda oppure acquistati da una società sementiera), avere informazioni sulle tecniche di coltivazione, sull’impiego o meno di pesticidi o fertilizzanti, sul dispendio di acqua o di altre risorge energetiche, sull’habitat nel quale è stata prodotta (se per esempio è stata coltivata in serra o all’aperto), sul numero di lavoratori impiegati dall’azienda agricola. Possono sembrare informazioni superflue; non lo sono affatto.

Marx ce l’ha insegnato…

Centocinquanta anni fa Marx ci ha insegnato che uno degli incantesimi più accecanti della forma merce è quello di nascondere la propria storia; di rendere invisibile il lavoro che l’ha prodotta e di cancellare le tracce dei vari passaggi di stato che l’hanno trasformata e poi spostata fino nelle nostre mani. Il problema, come si capisce subito, è politico.

Se fosse possibile infatti ricostruire uno a uno gli anelli della catena produttiva saremmo forse in grado di sperimentare un conflitto sindacale all’altezza dei tempi – perché organizzato verticalmente sulla catena del prodotto – e, nello stesso tempo, sapremmo proteggerci come consumatori da sofisticazioni e frodi di ogni tipo. Perché potremmo scegliere non solo le merci, ma soprattutto la loro storia visibile.

Da anni ormai sappiamo che i pomodori venduti a prezzi irrisori nella grande distribuzione nascondono pratiche di lavoro semi-schiavistico, con immigrati irregolari costretti a lavorare per pochi euro al giorno, in Italia come in Spagna. Sappiamo anche dalla cronaca che la criminalità organizzata riesce sempre più spesso ad inserirsi all’interno dei passaggi della filiera produttiva agroalimentare, contrabbando prodotti magari coltivati nella Terra dei fuochi.

Sono casi estremi, si dirà. Eppure la casistica media di frodi e sofisticazioni dovrebbe sconsigliare comunque una fiducia cieca nel mercato alimentare, visto che perfino la Coldiretti ha di recente promosso un «Osservatorio sulla criminalità nell’agricoltura». Mentre è equiparabile a una regione grande come il Friuli Venezia Giulia il territorio italiano contaminato da interramento di rifiuti tossici. Non viviamo in tempi normali.

La storia nascosta di un prodotto

Per non favorire una per altro ormai ragionevole sindrome paranoica, sarebbe necessario che lo Stato e l’Unione Europea corressero rapidamente ai ripari. Potrebbero imporre un rigido sistema di controllo su tutta la filiera produttiva – anzitutto alimentare – con l’applicazione di un’unica etichettatura capace di ricostruire minuziosamente la storia nascosta di ogni prodotto, partendo dall’origine per arrivare alla distribuzione finale.

In realtà, un prototipo di etichettatura con certificazione controllata su ogni passaggio della filiera produttiva esiste in Europa solo in Italia ed è già adottato da 260 aziende del settore agroalimentare, su oltre 800 prodotti. È l’Etichetta Trasparente Pianesiana. Questo modello, ideato nel 1980 dal professor Mario Pianesi, pioniere della macrobiotica italiana che è appena ricevuto dall’Università degli Studi di Urbino il sigillo accademico per meriti scientifici e umanitari, è stato proposto come prototipo di certificazione controllata al Senato della Repubblica già nel 2003. Quest’anno, ma la prima presentazione risale al 2008, il Parlamento Europeo ne ha discusso il riconoscimento come certificazione per la difesa della salute del consumatore e dell’ambiente.

Ma come è progettata una etichetta trasparente pianesiana? In aggiunta alle informazioni previste dalla normativa vigente, questo prototipo di certificazione fotografa l’intera catena produttiva. Anzitutto riporta le informazioni sull’origine e le caratteristiche di ogni prodotto (origine geografica, habitat e caratteristiche degli ingredienti o delle materie prime; metodo di coltivazione; quindi modi della trasformazione e della lavorazione), registra il suo impatto ambientale (come la quantità di CO2 emessa, l’energia e l’acqua utilizzate) per poi descrivere tutti i passaggi della filiera, dal numero di lavoratori impiegati nell’azienda produttrice fino al dettagliante da cui acquista il consumatore.

Anche il presidente di Slow Food Italia, Roberto Burdese, ha di recente richiamato l’attenzione «sulla necessità di affidarsi agli studi di Mario Pianesi per realizzare etichette parlanti che possano raccontare minuziosamente tutta la filiera produttiva».

Mentre aspettiamo che il Parlamento italiano e l’Unione Europea si muovano, l’etichetta trasparente pianesiana esiste già e può essere liberamente adottata da qualsiasi azienda, agroalimentare e non, che lo voglia. È una certificazione che vincola il produttore alla trasparenza e alla responsabilità, qualità che tanto il capitalismo multinazionale quanto la criminalità organizzata non amano.