Quando se ne va a sessant’anni il 30 aprile 1989, Sergio Leone sta per girare l’ultimo sogno della sua vita, raccontando i novecento giorni dell’assedio di Leningrado, il progetto inseguito fin da quando si è imbattuto per caso nel libro di Harrison E. Salisbury che giovanissimo era stato l’unico giornalista occidentale a seguire sul posto i tragici avvenimenti per conto del «New York Times», durante i quali si è immolato il quaranta per cento della popolazione, un milione e trecentomila morti.

Ma gli avvenimenti sono talmente spaventosi da superare ogni immaginazione che per mostrare sullo schermo l’eroico sacrificio del popolo russo occorre un adeguato «controcanto», una straordinaria storia d’amore da affiancare al dramma collettivo. Una storia d’amore tra due persone provenienti da due terre diverse, quella tra un cineoperatore americano e una ragazza russa che il destino fa incontrare nei primi giorni. Lui pensa di filmare per un paio di settimane e poi tornare negli States, ma a poco a poco si rende conto di essere lo spettatore privilegiato di una tragedia che avrebbe segnato il corso della storia e decide di restare per tutto il tempo dell’assedio.

Lei, pur sapendo che i contatti con gli occidentali sono assolutamente proibiti, si lascia coinvolgere con la serenità di chi vive giorno per giorno la sfida collettiva del suo popolo. La vicenda si conclude soltanto quando le armate tedesche si sono rivelate impotenti nei confronti dell’eroismo di una città sconvolta dai bombardamenti dieci volte al giorno per tre anni. Si susseguono nel frattempo gli incontri con la nomenklatura sovietica del cinema e i sopralluoghi a Leningrado, nella vecchia Pietroburgo in cui sente aria di casa, sempre più convinto di ambientare negli anni terribili dell’assedio la storia impossibile tra l’americano e la ragazza russa, che assume un significato particolare perché «l’America e la Russia sono le due facce della stessa medaglia». Naturalmente nel corso di una trattativa complessa che si avvierà alla conclusione soltanto dopo l’avvento della Perestrojka – poco prima di morire aveva appena firmato l’accordo con i sovietici e era in procinto di andare negli gli Stati Uniti per siglare gli accordi con gli americani – l’inesauribile vitalità di Sergio s’impegna in tanti altri progetti, spesso destinati a non andare in porto.

Se il più clamoroso è quello di «Filumena Marturano», ambientato in America con Robert De Niro e Barbra Streisand, non è meno interessante il remake di «Via col vento», riscattato dal puritanesimo del Codice Hays, recuperando la sostanza più profonda del romanzo di Margaret Mitchell. Senza insistere sui progetti di «La condizione umana» di Malraux e «Viaggio al termine della notte» di Céline, che si rivelano quasi subito intraducibili, il più suggestivo è «Viale Glorioso», la storia di un gruppo di amici cresciuti nel quartiere romano di Trastevere. Subito dopo avviene la scoperta del cinema e inizia il lungo apprendistato, attraverso il quale dal neorealismo alla Hollywood sul Tevere impara il mestiere, metabolizzando sguardo italiano e ottica americana, generi e autori, realtà e finzione, memoria e vissuto.

Il set degli anni che vanno da fine quaranta a inizio sessanta, da «Ladri di biciclette» a «Sodoma e Gomorra», si risolve in un’immersione totale in cui matura l’assoluta padronanza delle tecniche e delle pratiche cinematografiche alla base del carisma del futuro autore. Il clamoroso successo della trilogia del dollaro ripropone il mito della frontiera, tra rêverie nostalgica e rivisitazione ironica, fino alla fine dell’epopea di «C’era una volta il West». Il libro ripercorre con il rigore analitico del critico e lo sguardo partecipe del leoniano di ferro i vari momenti della storia prodigiosa dell’uomo-cinema che non aveva esitato a innamorarsi con Carmine Gallone dell’opera lirica, a rubare le astuzie dell’artigianato a Mario Bonnard, a emulare il gusto ironico di Steno, a gareggiare con i directors americani, i William Wyler, i Mervyn LeRoy, i Raoul Walsh, i Fred Zinnemann, nella magniloquenza della messinscena. Sfogliando film per film, immagine per immagine, la carriera di Sergio Leone – e dedicando pagine sottili e profonde a «C’era una volta in America», struggente sinfonia del tempo e capolavoro del postmoderno – si arriva all’inizio del singolare pellegrinaggio alle fonti in cui le pulsioni cinefile s’intrecciano con il mito familiare di Bob Robertson, il figlio di Vincenzo Leone, in arte Roberto Roberti, il metteur en scène di Francesca Bertini, che era nato nel 1879 a Torella dei Lombardi, nei pressi di Avellino, là dove tutto era cominciato.

(Marcello Garofalo, Il cinema è mito Vita e film di Sergio Leone, minimum fax, pp. 540, euro 20,00).