Secondo diverse teorie l’universo è composto da 5 elementi: etere, aria, fuoco, acqua e terra. La piccola isola nell’estremo nord Europa, l’Islanda, sembra racchiuderli tutti in una superficie non molto più grande di Piemonte e Lombardia.

Vulcani, geyser, aurore boreali, ghiacciai sono diventati – da una decina d’anni – l’attrazione di un turismo sempre più di massa che sta trasformando la pacifica vita dei circa 350 mila abitanti dell’isola, fenomeni naturali con i quali gli islandesi, però, convivono da centinaia di anni. Sarà per questo che gli abitanti della terra dei ghiacci – sia quando le tribù vichinghe si autogovernavano sia quando furono assoggettati alla corona danese – hanno fatto proprio un motto che è anche una vera e propria filosofia di vita: «þetta reddast», tutto si aggiusta, andrà bene. Non è fatalismo, è la consapevolezza di vivere una condizione di oggettiva precarietà: bloccati per giorni a causa della neve o evacuati a seguito di un’eruzione vulcanica o di un terremoto.

Chi vive in Islanda sa che dovrà convivere con qualcosa di più grande (e incontrollabile) di lui. Forse è questa irrimediabile insicurezza per il futuro a rendere il paese il più pacifico al mondo: nessun esercito, polizia senza armi da fuoco, carceri “a misura d’uomo”, una legislazione tra le più avanzate del pianeta in materia di diritti civili e di parità di genere.

«Þetta reddast», alla fine, «tutto si aggiusta».

È il 6 ottobre del 2008 quando il sistema bancario dell’isola va in bancarotta e l’allora primo ministro conservatore, Geir Haarde, conclude il discorso alla nazione in diretta televisiva con un retorico «Dio salvi l’Islanda» segnalando quanto grave fosse la situazione. In dieci anni però l’economia è ripartita, il tenore di vita degli islandesi continua ad essere tra i migliori al mondo e anche la politica non ha subito incredibili stravolgimenti. Tutto si è, in qualche maniera, aggiustato nuovamente. Oggi al governo c’è un’inedita alleanza politica che vede unite forze molto diverse tra loro, dalla sinistra verde al Partito dell’Indipendenza, conservatore e al potere, praticamente ininterrottamente dagli anni ’40, eccetto che per i cinque anni dopo la crisi.

La prima ministra è una donna, Katrín Jakobsdóttir, quarantadue anni, femminista, ecologista, presidente di Vinstrihreyfingin – grænt framboð (La Sinistra – Movimento Verde), seconda forza politica dell’Isola.

Jakobsdóttir guida un esecutivo con i conservatori e i centristi del Partito Progressista da posizioni di minoranza dopo aver provato a formare, nel 2017, un governo di centro sinistra con altre 4 formazioni a seguito dello scioglimento anticipato del Parlamento per lo scandalo dei Panama papers che investì membri dell’allora maggioranza di destra.

L’attuale governo di «grande coalizione» si regge su un’agenda di provvedimenti che ha avuto come principale motore l’uscita dall’austerità imposta proprio dalla crisi del 2008. Il deputato della Sinistra Verde (VG) Ari Trausti Guðmundsson, già candidato alla presidenza della Repubblica nel 2012, che abbiamo incontrato al Parlamento islandese, ci dice: «Questa maggioranza era l’unica possibile per garantire la stabilità del paese e l’accordo di governo è stato costruito su obiettivi chiari che, in buona parte, erano nel nostro programma: ambiente, welfare, infrastrutture, politiche fiscali e istruzione». «Oggi a metà della legislatura – sostiene Ari Trausti – non solo un terzo del programma è stato realizzato ma molti altri provvedimenti produrranno benefici visibili sul medio periodo. Sono state ridotte le aliquote fiscali per i redditi più bassi passando dal 36 al 32%, si è fermata la privatizzazione del sistema sanitario (la Ministra della Salute è di VG, nda), sono state cantierizzate infrastrutture importanti per esempio nel nord est del paese e, soprattutto, si è impressa una vera svolta ecologista».

La Sinistra Verde è convinta che questa formula abbia portato dei benefici reali all’Islanda, a conferma il deputato progressista ci mostra i sondaggi settimanali che danno la maggioranza di governo stabile nelle intenzioni di voto.

I sondaggi però neanche nella terra dei ghiacci sono così affidabili; nel 2017 – fino a una settimana prima del voto – era dato per vincente il Partito Pirata con oltre il 30% dei consensi salvo poi riceverne meno del dieci nelle urne. Un partito, quello dei pirati, che ha avuto la capacità di canalizzare la rabbia sociale dopo il crack del 2008 e dopo l’esperienza del primo governo di centro sinistra – eletto sull’onda delle manifestazioni di massa del “sabato pomeriggio” – ma che ha attuato rigide politiche di austerity, segnando la parabola discendente dell’Alleanza Socialdemocratica e il ritorno della destra nel 2013.

Oggi le nuove proteste arrivano dai lavoratori del turismo che sono, sempre di più, di origine straniera. Receptionist, facchini, lavapiatti, autisti che rivendicano salari più dignitosi e che stanno incrociando le braccia proprio in queste settimane. Il governo di grande coalizione si è trovato spiazzato davanti agli scioperi del settore (in Islanda sono molti anni che non avvengono simili mobilitazioni) ma ha, da subito, imbastito un tavolo di concertazione tra le organizzazioni sindacali e gli imprenditori. Probabilmente, nei prossimi anni, l’aumento esponenziale del settore turistico (è diventata la terza voce del Pil islandese) porterà a nuovi scenari e alla necessità di gestire questo fenomeno di massa. La piccola isola si trova ad affrontare – soprattutto nel periodo estivo – presenze di visitatori che superano anche di cinque volte i cittadini “autoctoni” portando come prima conseguenza tangibile un aumento incontrollato del valore degli immobili ma, soprattutto, una minaccia per il fragilissimo ecosistema islandese. Il governo ha destinato per questo 30 milioni di euro, quest’anno, per la tutela dei parchi e delle riserve naturali perché l’unica cosa che «non si può aggiustare» è questa Terra. La nostra.