«Quante bugie ci siamo detti, amore. Credere all’eternità è difficile, ma Ti aspetterò perché sei tu che porti il sole. Parlo poco lo sai, soprattutto di te. Certe cose fanno male, ma Resta con me, anche se A volte dirsi ti amo è più finto di un dai ci sentiamo. Leggo in fondo ai tuoi pensieri, Io che guardo sempre il cielo, Sdraiato a terra come i Doors. Ci hanno visti nuotare in acque alte fino alle ginocchia. In periferia fa molto caldo, C’è qualcosa che non va, ma Mi farò trovare pronto. Tengo il passo sul mio tempo concentrato come un pugile, Fare l’amore è così facile credo, però Fermati che non è l’ora dei saluti. E poi Je te veco accussì, Un po’ come la vita. Adesso chiudi dolcemente gli occhi e stammi ad ascoltare, anche se E’ da tempo che non sento più la tua voce al mattino che grida bu». No, non siamo impazziti al manifesto. La verità è che il suddetto pistolotto un po’ melenso è ciò che passa il convento di Sanremo. Per la precisione, è composto dagli incipit delle 24 canzoni in gara al festival.

A ONOR di cronaca, va detto che non tutte parlano di amori persi e ritrovati, così come non tutte seguono pedissequamente l’italianissima tradizione del cantar bene una melodia, però i cuori infranti vincono ancora 16 a 8. In questi ultimi testi si trovano argomenti misti come l’infanzia perduta cantata da Daniele Silvestri in Argentovivo, la nostalgia per un nonno intonata da Enrico Nigiotti, la vita da immigrato in un paese ostile in Soldi di Mahmood, l’invito di Achille Lauro a una vita in Rolls Royce e sregolata, ma molto diversa da quella spericolata che Vasco Rossi cantò proprio qui, nel 1983, arrivando penultimo.
Che fare, dunque, guardare questo festival o no? Incattivirsi a digitare critiche sui social o prenderlo per quello che è, un’innocua fiera popolare? Che ognuno decida come gli pare, ben sapendo che quelle quasi quattro ore di trasmissione sono un minestrone di canzoni, scenette, incidenti di percorso, abiti, trucchi, pettinature, giacche, tentativi più o meno riusciti di far ridere, ospiti che devono promuovere qualcosa e che tutto ciò lascerà pochi segni indimenticabili.

NON È dal festival di Sanremo che bisogna aspettarsi profondi pensieri politici o attacchi al sistema. Quel che invece si riesce a fare, guardandolo o ascoltandolo, è sparecchiare, caricare la lavastoviglie o la lavatrice, stretching (che è sempre salutare prima di andare a dormire), lavarsi i denti fra una pubblicità e l’altra, bersi una tisana o un cicchetto post prandiale, insomma tutte quelle occupazioni domestiche che non richiedono l’attenzione spasmodica di un thriller. Anche perché, passata la curiosità della prima mezz’ora, lo sbadiglio assassino è in agguato.

D’ALTRA PARTE, Cosa ti aspetti da me, Ragazza con il cuore di latta? Una Rolls Royce, Soldi, Parole nuove, Rose viola, I tuoi particolari? Mica sono Nonno Hollywood e nemmeno Argentovivo. Sono Solo una canzone, e Mi sento bene, come Le nostre anime di notte o la Musica che resta. E poi I ragazzi stanno bene, Un po’ come la vita, anche se l’Amore è una dittatura e servirebbe Un’altra luce. Abbi cura di me. Senza farlo apposta, Mi farò trovare pronto. Aspetto che torni, magari Per un milione, intanto mi chiederò Dov’è l’Italia. E questa è davvero una bella domanda. Indovinate da dove arriva l’ispirazione per questo finale? Tranne l’ultima frase, quella della bella domanda, è tutta farina dei titoli, ovvio.