Nell’inverno del 2011 uscì in modo sporadico, quasi invisibile nelle sale italiane un film dall’apparenza anodina, puramente intrattenitiva, ma in realtà stratificato, complesso proprio dal punto di vista formale, teorico: rievocazione, quasi torsione e sogno della commedia americana classica. Si trattava di Come lo sai di James L. Brooks che era stato capace di portare alle estreme conseguenze certe svagatezze, certe potenzialità sognanti e metacinematografiche già di film come Qualcosa è cambiato o Spanglish. Di soli due anni successivo a quello di Brooks, da cui quindi sembra prendere esempio (nel ruminare spazi, nel guardarsi attorno attonito, sperduto mentre ipotizza storie d’amore), è Tutto può cambiare di John Carney, uscito in Italia nel 2013 e ora su Netflix.

IL FILM è un trionfo di musica, cantabilità del mondo, tesa tra pop e songwriter, che sembra essere la carne delicata, sottile come la luce, di cui sono fatti i personaggi, fragili ed emotivi, fotosensibili, semoventi in spazi di solitudine, di crisi, prima di incrociarsi sulle strade di New York, che da sfondo sembra avanzare diventando il fondamento della storia, contesto che risuona, canta l’essere dei personaggi in relazione al sogno, a nuove possibilità d’esistenza.

Strade internate, guarnite di cassonetti, di bambini che ruzzano chiassando; altre colte all’uscita della metropolitana da un barbone titubante ed etereo; terrazzi quasi sospesi in aria, punteggiati da sirene della polizia; stazioni della metro in balia del risaputo via vai dei passeggeri: sono il materiale arrangiato nel disco da Dan Mulligan (un Mark Ruffalo eccezionale) cioè, alla fine, nel film di Carney. Dan, produttore discografico in sfacelo psicofisico ha la capacità di immaginare gli arrangiamenti partendo da una melodia di base, magari la canzone mesta di Gretta (splendente Keira Knightley) ascoltata per caso su un palco di un bar, a cui aggiunge viole, batteria, chitarre, basso: una polifonia che non è solo sonora, ma mette insieme spazi, quelli cinematografici, appunto gli scorci sempre luminosi, quasi eterei di una New York a misura d’uomo, e i personaggi aggregati così in forza di musica, composizione.

È QUELLA COMUNITÀ ritrovatasi intorno alla musica, al centro di tutti i film di Carney, anche se è solo qui che il regista irlandese raggiunge una sua coerenza, mai più trovata in seguito: il film si biforca, come uno splitter (spinotto a due vie per auricolari), quello che Dan tiene appeso allo specchietto retrovisore della propria auto; e dopo un prologo nel bar in cui i due protagonisti si conoscono, segue ora l’uno ora l’altra andando indietro nel tempo attraverso il passaggio visuale dello schermo di un computer, poi tornando avanti, come muovendosi tra le tracce di un lettore portatile che peraltro i due hanno sempre con loro mentre errano per la città.

CARNEY qui raggiunge una coesione, anzi una fibrillazione del materiale cinematografico (come in transito verso altri spazi: corpi, metabolismi che si protendono verso altri corpi e altri microcosmi) al contrario di film come Once e soprattutto di Sing Street, costellato com’era di errori, ingenuità, stucchevolezze.

In Tutto può cambiare invece arriva lo stato di grazia e l’errore di sceneggiatura (si direbbe consapevole, premeditato, modulato) è sutura di una trepidazione delle immagini, di un loro pulsare verso il proprio sogno; è quel solecismo che per Walter Siti rende unica e anomala l’opera: in questo caso, per fare solo un esempio, l’incastro perfetto, meravigliosamente inverosimile, dell’assolo di chitarra di Violet in uno dei brani che andranno a comporre il disco, fuori dagli studi di registrazione e al contrario in effusione con l’ambiente, con l’aria e con la pelle dei personaggi (questa la materia sonora del disco: le strade, il fragore, i cieli della città), ripresi da Carney con una sensibilità sorprendente, un’emozione della macchina da presa che fa tremare, sibilare, insomma fa esistere la sostanza dell’inquadratura mentre Ruffalo suona il basso elettrico e le fragilità si saldano, si rimarginano poco alla volta, e il mondo e la musica sembrano dire semplicemente, ingenuamente che tutto può cambiare.