Quando alle dieci del mattino parte la discussione generale sulla riforma più contestata della legislatura, nell’aula di Montecitorio sono in ventotto. Tolti i tre del governo e i cinque della commissione, relatori e ufficio di presidenza, ci sono venti deputati che hanno deciso di affacciarsi su quella che avrebbe dovuto essere la battaglia dell’Italicum (qualcuno si fotografa e twitta: «Io c’ero»).

Comincia allora una recita un po’ imbarazzata, dove soprattutto i contrari leggono discorsi altisonanti e allarmati, ma tarati su un uditorio più attento o almeno presente. Molto presto gli interventi si esauriscono e la ministra delle riforme Maria Elena Boschi si trova a dover anticipare la sua replica nell’aula che è rimasta vuota. Prima di pranzo il dibattito sulla legge «epocale» è già finito.

Oggi cominciano i voti e l’aula si riempirà. Ma le spaccature nella minoranza del Pd non si ricomporranno, e il governo non ha molto da temere.

Si comincerà votando le questioni pregiudiziali e sospensive (quattro di costituzionalità, tre di merito e una sospensiva). Sono state presentate da Sel, Lega, 5 Stelle e Forza Italia soltanto ieri, ed è per questo che saranno votate stamattina (dalle 11.30). Fossero state annunciate prima dai capigruppo, per il regolamento della camera avrebbero potuto essere votate già ieri, prima della discussione. Certamente la camera non sarebbe stata così vuota, ma magari la maggioranza avrebbe avuto qualche difficoltà in più (come sempre il lunedì).

Le pregiudiziali di costituzionalità si voteranno con un unico scrutinio segreto, il governo ha alla fine deciso di non mettere la questione di fiducia (c’era un solo precedente, su un decreto legge). I numeri della dissidenza interna al Pd non preoccupano Renzi, siamo lontanissimi da quei novanta deputati che dovrebbero passare dal sì al no (l’astensione non basterebbe) per mandare sotto l’esecutivo. La campagna di convinzione è andata avanti senza sosta, ieri anche un deputato di Sel – il pugliese Toni Matarrelli – ha annunciato che voterà per l’Italicum.

Eppure la questione di fiducia potrebbe tornare nel voto sugli articoli e sugli emendamenti. Minacciandola per settimane, Renzi ha già ottenuto due risultati: ha spaccato ancor di più la minoranza interna (pochissimi sono pronti a non votarla) e ha fatto passare l’idea di uno scambio tra la rinuncia al voto segreto (che è una garanzia intangibile per le minoranze, in materia elettorale) e la rinuncia alla fiducia (che è l’arma finale di tutti i governi, assai discutibile in materia elettorale). Il premier a questo punto potrebbe anche non mettere la fiducia. Rischierebbe però qualcosa quando saranno votati quegli emendamenti che moltissimi deputati anche della maggioranza renziana dichiarano (in teoria) di apprezzare. Soprattutto l’emendamento che recupera la possibilità di apparentamenti al secondo turno.

Il voto segreto di oggi sarà un test, poi il presidente del Consiglio valuterà come andare avanti quando, a maggio, la legge arriverà ai passaggi decisivi. E non si tratta di un rinvio dell’ultim’ora: da mesi la legge era stata messa in calendario a fine aprile al solo scopo di poter contingentare i tempi nel mese successivo. A Renzi interesserà contare i voti contrari alle pregiudiziali che arriveranno dai renziani di Forza Italia, pronti a sostenere nel voto segreto la memoria del patto del Nazareno. Gli amici di Verdini ieri hanno smentito con un’agenzia questa intenzione, in pratica confessandola. E non li si può accusare di incoerenza, avendo Forza Italia sostenuto contro tutto e tutti l’identico testo di legge meno di tre mesi fa.

Renzi però qualche agitazione la tradisce, quando decide di scrivere una lettera aperta a tutti i responsabili dei circoli Pd. Per mortificare a più non posso l’opposizione interna, anzi «una parte della minoranza» e i suoi «veti». Dopo aver minacciato la crisi di governo in caso di sconfitta sull’Italicum, rilancia con la minaccia sul partito: «È in gioco la dignità del nostro partito» che potrebbe «venire meno come motore del cambiamento».

Al che le minoranze del Pd si offendono e comprensibilmente protestano: i cuperliani scrivono una lettera di risposta, Fassina parla di messaggio «fantasioso e preoccupante». Ma prima di sera l’affondo del segretario si completa, e tutti i venti segretari regionali del Pd rispondono con un appello ai deputati perché si mettano in riga: «Non fate imboscate». Non ne faranno.