La Kát’a Kabanová andata in scena al Teatro San Carlo, oltre a essere un ulteriore dimostrazione della formidabile capacità del Direttore musicale, Juraj Valcuha, di dirigere un repertorio che gli è estremamente congeniale – e su in questa sfida l’orchestra lo segue con la consueta dedizione e risultati eccellenti – è l’occasione per esplorare un autore poco rappresentato in Italia ma straordinariamente interessante qual è stato il cecoslovacco Leoš Janácek (1854 – 1928). L’opera, una produzione della Staatsoper di Amburgo, viene presentata come un unico, lungo atto, favorendone una lettura a metà tra lo psicanalitico e l’onirico che, in parte riscattando la schematicità del libretto, affida alla musica il compito di rivelare, nelle sue trascoloranti volute, le emozioni e i pensieri che agitano i personaggi creando un commento autonomo al dramma che si svolge sul palcoscenico.

KATIA è l’unica vera persona in scena, gli altri sono ridotti a puri pretesti per far sprigionare il veloce succedersi di frustrazioni, speranze, aspirazioni e tormenti che la agitano e che l’orchestrazione lampeggiante sembra amplificare, prolungare, dissolvere in una nuove e diverse emozioni. Scritta all’inizio degli anni venti Kát’a Kabanová appare una sorta di via di mezzo tra la funesta Jenůfa e la poetica riflessione sulla natura della Piccola volpe astuta, la tragedia della prima si scioglie nella seconda in una percezione panica della natura, vista come un mondo nel quale si nasconde la risposta al male di vivere.

«PERCHE’ gli uomini non volano?», si chiede la protagonista, prigioniera di un matrimonio che la soffoca, nonostante l’amore che afferma di portarle l’inetto coniuge, e della feroce ostilità della suocera. L’opprimente scenografia riduce il palcoscenico a una chiusa stanza sbilenca, senza finestre, dalla quale si intravvede a volte una piccola striscia di azzurro, stanza che solo nel finale si spalanca, ma solo per consentire alla protagonista di gettarsi nel vuoto, come un uccello che trova finalmente la libertà.
Barbara Haveman, che si alterna con Paula Vykopalová nel ruolo, è stata una protagonista assolutamente convincente dal punto di vista vocale e scenico: fragile nella sua veste bianca, nevrotica nel suo disegnare ossessivamente le ali che soffre di non avere, decisa nella sua conquista della libertà al prezzo della vita.