È bella la mostra Magnificent Obsessions: The Artist as Collector, al Barbican Centre di Londra (fino al 25 maggio). Lo è al punto che obbliga a porre mente e a interrogarsi a lungo, mentre si passa da una stanza all’altra, su cosa sia o cosa diventi un semplice oggetto, quando entra nel cerchio d’azione di un artista, fosse anche nella sua maniacalità di collezionista compulsivo, che pure è l’aspetto meno sottolineato e giustamente pensato non essenziale, come spiega la curatrice Lydia Yee nelle pagine che aprono il catalogo. Un catalogo altrettanto interessante, con piacevoli interviste agli artisti.

Martin Parr Collection. Space Ephemera. 2013.
Martin Parr Collection. Space Ephemera. 2013

Infiniti gli oggetti e le tipologie raccolti dagli artisti, mai casuali, sempre con una rigorosa logica interna al rapporto tra ciò che viene collezionato e la ricerca di ogni artista collezionista, rapporto che coinvolge l’osservatore fino a farlo sentire posto al centro di un nuovo universo ri-creato e labile al tempo. È affascinante provare a creare un sistema entro cui ordinare le tipologie d’artista, una sorta di catalogazione alla Linneo che fa entrare il visitatore dentro un gioco di corrispondenze che è tra i migliori risultati ottenuti dall’esposizione. Una catalogazione che risulta non facile, come difficile è ricondurre a schemi i piaceri umani, perché collezionare, trovare quell’oggetto che si cercava, scoprirlo in un mercato o da un altro collezionista regala un gran piacere. Ma alla fine due sembrano essere le specie in mostra. Gli artisti che accumulano oggetti ma che giocano a non rendere visibile quel criterio che sottintende la raccolta e che allineano cose che appaiono come utilizzate, o almeno guardate quotidianamente, e poi quelli che intervengono sugli oggetti con una sorta di freddo furor classificatorio, li modificano o li allineano, li riordinano e impongono visivamente la loro chiave di lettura affinché i pezzi si mostrino in modo curato, distaccato e raffinato all’occhio altrui.

29. PETER BLAKE. Elephants from the collection of Sir Peter Blake, photo Hugo Glendinning
PETER BLAKE, Elephants from the collection of Sir Peter Blake, photo Hugo Glendinning

Al primo sicuramente appartiene Peter Blake, uno dei pionieri della Pop Art che dichiara il collezionismo essere per lui una malattia ereditaria, la cui collezione assume un’identità pop, fluorescente e colorata, divertita e sorniona, che alterna decine di elefantini lisergici a vetrine di oggetti catalogati da altri collezionisti, insegne di defunti magazzini a intere serie di burattini degli anni 20 e Wunderkammer portatili vittoriane, in una sorta di metacollezione che fagocita ogni logica e che potrebbe scomparire in un attimo. Infatti è proprio Blake a dire che con un paio di aste tutto potrebbe essere risolto ricreando un nuovo, vuoto ordine. Anche la collezione di Hanne Darboven lascia libertà all’osservatore di tracciare una mappa mentale per riunire sotto un solo concetto la lunghissima catena di cose che allinea polene, serie fotografiche e di antiquariato, riproduzioni di eroi dei comics, posacenere, strumenti musicali, vasi da notte. Non rimane da pensare allora che l’artista che aveva smaterializzato tutto quello che conferisce corpo al tempo nelle sue minuziose serie numeriche di addizioni, sembra rimaterializzare lo spazio nell’innumerevole quantità di oggetti che aveva addizionato per riempire ogni angolo della sua casa studio.

Diversa categoria di accumulatore è rappresentata da Hiroshi Sugimoto che, come spiega nel dialogo in catalogo, tende a rendere sempre più sottile il limite tra la sua arte e gli oggetti che colleziona che hanno quindi bisogno di un suo intervento ordinatorio affinché diventino «oggetti di scena», mai archivio. L’arte di Sugimoto ha tratto spunto dal suo essere collezionista e nella mostra di Londra infatti appare chiara la sua costante ricerca di spazializzare, anche in termini geografici, il tempo. Un tempo chimicamente raffinato e decantato, che prende forma nella vastità del pensiero scientifico e della tecnologia del mondo intero e che si racconta limpidamente per il tramite della «scrittura» dell’artista giapponese. Una narrazione che comincia con gli strumenti per la misurazione della vista, le cassettine di globi oculari di vetro, il kit per gli interventi di chirurgia oculistica, indicando quale sia il vero organo della conoscenza, l’ironico calembour del senso che dà senso all’arte.

Si prosegue poi con antiche copie del Trattato di Ottica e dei Philosophiae Naturalis Principia Mathematica di Newton che si aprono al dialogo con le tavole anatomiche del periodo Edo e quelle del trattato di Jacques Gautier d’Agoty, tutte così belle e sapienti da riconciliare ogni visitatore col proprio corpo. Se è vero che all’interno di ogni collezione c’è la volontà di rappresentare e trattenere il tempo, quello che si respira nella logica degli oggetti di Sugimoto è il tempo non corrotto dalla tragedia umana, dalla sua superficialità, ma quello bello e non distorto che si compone quando fa il suo ingresso la ragione.

18. HIROSHI SUGIMOTO. 'Bifocal AO trail Lens Frame Set'
HIROSHI SUGIMOTO, “Bifocal AO trail Lens Frame Set”

Anche il Sol LeWitt collezionista sembra partire dalla scientifica rappresentazione di oggetti, ma la sua scientificità nello scorrere della raccolta si apre, si squaderna e accoglie disparate visioni. Trovano così posto decine di oggetti riuniti per specie (scarpe, abiti, libri, lampade…) e fotografati in modo entomologico, cioè precedentemente archiviati, proprio come insetti, in apposite cassettine. Foto rigorose, geometriche, in bianco e nero che d’improvviso cedono il posto a antiche foto di eleganti geisha che accolgono l’osservatore in quella parte della collezione che apre un altro importante nodo dell’intera mostra, quello dell’artista che colleziona arte. E così scorrono le celeberrime litografie di Hokusai, di Hiroshige, di Hirosada, proprio quelle stesse che rimutarono l’arte europea nella seconda metà dell’800 e che nell’ordine di esposizione – che ha rispettato al massimo quello mentale degli artisti – tracciano la linea della storia dell’arte che conduce all’atelier di Picasso fissato da Cartier-Bresson, passando per gli archetipi botanici di Karl Blossfeldt, autentici capolavori di riduzione minimale, datati 1928.

Se l’arte colleziona arte con metodo, ordine, mai alla rinfusa, allora la rassegna non dimentica Howard Hodgkin con la sua meravigliosa raccolta di pittura indiana, un’autentica mostra nella mostra che il saggio dello stesso artista in catalogo rende ancor meglio apprezzabile. Veri capolavori compresi tra il XVI e il XVIII secolo, già donati all’Ashmolean Museum di Oxford, in cui la raffinata tecnica della gouache con aggiunta di oro raggiunge risultati abbaglianti per narrare episodi del Ramayana, rappresentare con la medesima eleganza eroi e animali, ricordare l’avvio di un colonialismo che sarebbe durato a lungo e in un modo assai meno armonioso di come quelle scene luminose mostrano.

Ma allora cos’è un oggetto nella mente e quindi nella collezione di un artista? Se fosse qualcosa di simile a quello che Platone chiama exaiphnes? Un punto, un nodo che è istante e non lo è, che non è né mobilità, né quiete, che è tempo e sua sovversione, mimesi e artificio. Tutte le cose che vediamo nella mostra del Barbican appaiono proprio come quel punto paradossale di non-tempo e non-luogo che pure ci permette la conoscenza o quanto meno il tentativo di interpretazione del mondo nell’attimo in cui questa si trasforma in memoria.