Arrivare per la prima volta a Barcellona e Madrid nel 1977, quarant’anni fa, dopo le prime elezioni democratiche che avviavano una difficile transizione. Il ricordo è vivissimo. Tutto è cambiato rispetto agli anni Settanta, quando viaggiare in Spagna era un’esperienza dalle forti emozioni. La morte di Francisco Franco (19 novembre 1975) aveva lasciato dietro di sé un paese arretrato e povero. Per rendersene conto, bastava percorrere i pezzi di autostrada e poi di aperta montagna che portavano da Barcellona a Madrid in non meno di nove-dieci ore.

Lungo il tragitto s’incontravano paesini dalle mura tinte interamente di bianco e donne che indossavano enormi scialli neri. Il traffico era rado, come se muoversi da un punto all’altro lo si potesse fare solo con i treni che tra l’altro viaggiavano su binari diversi da quelli del resto d’Europa.

Lo stacco tra Barcellona e Madrid aggiungeva sensazioni a sensazioni. La capitale catalana era in preda al virus della democrazia. Lungo le ramblas si faceva tardi la notte discutendo di politica. La città sembrava essersi lasciata dietro le spalle il fascismo già da qualche anno e non da pochi mesi. In tanti ti raccontavano che erano andati a vedere Ultimo tango a Parigi di Bernardo Bertolucci a Perpignan, passando la frontiera francese: era il loro modo di parlare del cosmopolitismo di Barcellona (quel film giunse subito dopo nelle sale spagnole mentre da noi ne era vietata la visione). La sinistra era fortissima con il baluardo dei comunisti del Psuc – dove militavano dallo scrittore Manuel Vázquez Montabán, non ancora internazionalmente famoso, all’intellettuale cattolico Alfonso Comin – e del gruppo della nuova sinistra Bandera roja, molto affine al manifesto. Capitò di imbatterci in una grandiosa manifestazione con lo sventolare di bandiere rosse e gialle che celebrava la tradizione della sinistra repubblicana catalana. A dominare non era però allora la volontà di secessione, bensì l’orgoglio di rivendicare la propria identità in una Spagna libera dopo decenni in cui non si poteva neppure parlare la propria lingua e usare le proprie simbologie. Barcellona era un’isola di idee libertarie in una Spagna ancora oscurantista. Era la città più democratica e vivace della penisola iberica.

A Madrid, nel 1977, si respirava un clima tutto il contrario di quello di Barcellona. Nell’architettura imperiale e nei simboli indenni del franchismo, era restata la capitale ossificata di un regime che stava provando a sopravvivere privo del suo caudillo. Tutto era opprimente. Nel 2017, invece, la capitale spagnola non ha niente da invidiare a Barcellona, mentre la competizione tra le due città è continuata in quanto a servizi, rete metropolitana, qualità della vita. A Madrid oggi nulla ricorda l’atmosfera grigia, da regime, repressiva e militare degli anni Settanta. Chiunque abbia visitato Madrid non può dimenticare la Gran Vía, la strada simbolo che è un po’ la Broadway di Spagna con cinema, teatri e vita notturna che termina solo all’alba. I suoi palazzi, testimoni del modernismo novecentesco, hanno visto i bombardamenti della guerra civile vinta dal fascista Franco, il ritorno alla democrazia di fine anni Settanta e la movida del decennio successivo. A colpire è l’insieme degli stili architettonici: dal Neo Barocco all’Art Nouveau fino al modernismo post Novecento. Questa capitale europea compete ormai con Parigi e Londra in quanto a modernità. Un treno denominato «Ave» la collega a Barcellona, distante 650 km, in appena due ore e mezza.

Già a iniziare dal 1980 le cose sono iniziate a cambiare a Barcellona. Alla presidenza della Catalogna veniva eletto Jordi Pujol, poi rieletto – per più di un ventennio – fino al 2003, il vero ispiratore dei secessionisti di oggi, fondatore del partito Convergenza democratica. Il suo successore Artur Mas ha radicalizzato via via le richieste autonomiste fino all’attuale presidente della Generalitat Carles Puigdemont diventato il portavoce ufficiale della secessione. Mentre la Catalogna era governata da Pujol, andavano intanto in crisi o a pezzi i partiti tradizionali fino alla marginalità attuale. Tornando a Barcellona, che resta una affascinante metropoli malgrado il vento nazionalista, si notava negli ultimi anni il crescere della febbre secessionista con l’esaltazione acritica di tutto ciò che è catalano. Bastava poco ad accendere la miccia della secessione. Ed è difficile credere a una egemonia di sinistra su ciò che sta accadendo: il fenomeno è più complesso e meno limpido.

Resta comunque tutta da scrivere la storia di come si sia sottovalutata la polveriera catalana. L’ultimo tentativo di abbozzare la riforma dello Stato spagnolo in direzione più federalista lo ha fatto l’ex premier socialista José Luis Rodriguez Zapatero, che però non riuscì a portare a termine il suo progetto. L’avvento dei governi di Mariano Rajoy non hanno fatto una mossa per evitare l’epilogo che ormai sembra inevitabile.