Un doloroso senso di morte incombeva su quell’angolo di Sicilia, nei giorni in cui Thierry Salmon metteva in scena Le Troiane sulle rovine di Gibellina distrutta dal terremoto. Estate 1988. Due giovani artisti, un attore e un regista che era anche un acuto intellettuale, erano stati uccisi su una spiaggia non molto lontana, poche settimane prima. E queste altre morti sembravano produrre una sorta di risonanza sul dolore raccontato dalla tragedia di Euripide. Chi era là allora, davanti ai ruderi ancora insepolti, non può che partire da questa memoria, e dalle immagini che si conservano di quello spettacolo bellissimo, per dire di Tutto brucia, la creazione che Daniela Nicolò e Enrico Casagrande hanno tratto dalla tragedia (a India fino al 23 settembre). Diversissimo naturalmente, lo spettacolo di oggi, che i due artefici di Motus hanno immerso in una lunga notte senza stelle – notte della coscienza, dell’umanità smarrita. Ma che pure sembra toccare lo stesso nucleo profondo.

IL DOLORE, ecco. Forse soltanto la tragedia è stata capace di dare voce al dolore dei vinti, di mettersi dalla loro parte. Quello dei Persiani sconfitti dai Greci a Salamina, nella tragedia di Eschilo; o qui le donne di Troia che attendono di essere spartite fra i vincitori. Tutto si è consumato, gli uomini sono morti, dovunque sono solo fumo e fiamme. Da un lato una cantante, chitarra al collo, canta così la distruzione della città. Tocca a lei, Francesca Morello in arte R.Y.F. in omaggio a Bulgakov, assumere il ruolo del corifeo, colui che nella tragedia antica dà voce al pensiero collettivo, al sentimento di tutti. La città brucia ma qui siamo in una terra di nessuno, un buio acquitrino di fango e cenere. Due neon piantati verticalmente nel terreno non servono a rischiararlo. Sul fondo un sipario a fitte pieghe ondeggia nell’oscurità velata da bagliori violacei.

NELL’OSCURITÀ si indovina il muoversi di qualcosa di indistinto. Striscia per terra. Raggiunge qualcosa di altrettanto indistinto e con un coltello da macellaio comincia a tagliarne dei pezzi. Sono delle protesi che indossa sulle mani la figura femminile emersa dal buio. Un’altra l’ha raggiunta, hanno abiti leggeri che facilmente si sollevano ed espongono i loro corpi a una nudità indifesa. Sono loro, Silvia Calderoni e Stefania Tansini, a evocare le protagoniste della tragedia. Giacché di questo si tratta, l’evocazione di lontani fantasmi. Ecuba che a Troia era regina e ora cerca di ricomporre il corpo di Polissena sgozzata sulla tomba di Achille. Andromaca, colei che combatte gli uomini, un destino scritto nel nome. La visionaria Cassandra che invoca una dionisiaca danza fra le fiamme e si vede morire. E Elena la straniera presa a forza, per la quale la bellezza è vergogna. Fantasmi. Davanti un mare da attraversare.
Si muovono quasi sempre a terra, una terra polverosa in cui si imprime e subito si cancella la traccia dei loro movimenti. Si rifugiano in un precario ricovero ricavato fra i lembi di quel fondale che pare dotato di un respiro proprio. Sventolano una bandiera nera che non è di resa. Ogni tanto lasciano riemergere brandelli di parole ritrovate nella memoria. Quelle di Euripide si intrecciano con altre parole, da Sartre alla riflessione femminista di Judith Butler e Donna Haraway. Ma sono bagliori anche questi, di cui forse non conoscono più il significato perché a farle parlare è il canto, in un’altra lingua ormai, la lingua dei vincitori (era quella greca antica infilata nelle note di Giovanna Marini per lo spettacolo di Salmon, qui è l’inglese del nuovo potere globale). Dall’alto cade con un cupo fragore un sacco arancione, forse simulacro del corpo del piccolo Astianatte, gettato giù dalle mura della città perché la stirpe di Priamo non abbia una discendenza. It’s all over now. Tutto brucia. Troia non esiste più. Ecuba esce.

COME nella parabola tramandata dalla mistica ebraica, abbiamo perso la memoria degli antichi maestri, non sappiamo più com’era la tragedia. Ma conosciamo ancora questa storia e questo basta per riconnetterci con il dolore dei vinti cui dà voce.