E’ rimasto in silenzio per ore dopo l’annuncio del cessate il fuoco a Gaza. Poi Benyamin Netanyahu è tornato a parlare: ieri sera alla nazione, qualche ora prima per elogiare l’aviazione per il “buon lavoro” fatto a Gaza nei 50 giorni di offensiva “Margine Protettivo”. «La forza aerea ha svolto la sua missione molto bene – ha detto ad avieri e piloti nella base di Hatzor – Avete operato in un modo che suscita stupore, è straordinario. Avete raggiunto la vetta dei risultati tra le forze aeree di tutto il mondo». Ibrahim , 11 anni, di Beit Hanun ha avuto modo di constatare le “capacità” delle forze aeree israeliane. A luglio un F-16 ha sganciato una bomba sulla sua strada riducendo in un ammasso di mattoni, pietre e fili di metallo la sua abitazione. Una sorte subita da altre migliaia di case a nord e a est di Gaza, finite sotto il fuoco anche dell’artiglieria.

 

Ibrahim e i suoi genitori per fortuna erano già scappati quando è caduta quella bomba. Per oltre un mese ha vissuto in una scuola di Jabaliya. Ieri con un materasso poggiato sulla testa, il bambino palestinese ha lasciato l’aula che per settimane è stata il suo rifugio e si è avviato assieme ai genitori e ai fratelli verso Beit Hanun. «La nostra casa non c’è più, mio padre ci ha detto che ci sistemeremo tra le macerie, che saprà ricostruirla al più presto. Io l’aiuterò», spiegava Ibrahim con il tono di chi è cresciuto troppo in fretta. Passati i festeggiamenti e la gioia per l’accordo di cessate il fuoco tra i palestinesi e Israele annunciato martedì sera, in una Gaza intasata come non mai di auto e taxi collettivi, ieri migliaia di famiglie palestinesi hanno fatto ritorno a casa, anche se distrutta.

 

Automobili e carretti carichi di materassi e coperte si sono diretti verso Beit Hanun, Shujayea, Khuzaa, Rafah e le altre località rimaste per due mesi sotto un pesante martellamento aereo e di artiglieria. E lo hanno fatto tra sentimenti contrastanti, in un mix di sollievo per la fine dell’offensiva israeliana e di tristezza per i danni subiti, che sono enormi. Occorreranno 15 anni per la ricostruzione, calcolano le Nazioni Unite, se l’ingresso dei materiali necessari non avverrà a ritmo sostenuto. A poco serve perciò l’assicurazione giunta dal Qatar, lo sponsor politico più importante di Hamas, che si dice pronto a fare tutto il possibile per aiutare la ricostruzione di Gaza. Ora però occorre garantire: cibo, acqua e molto altro a una popolazione in stato di shock che fatica a recuperare un senso di sicurezza e di normalità. Solo per l’emergenza ci vogliono subito 367 milioni dollari. Per rimettere in piedi Gaza, la sua gente e la sua economia, altri 5-6 miliardi di dollari che i palestinesi sperano di recuperare alla conferenza dei paesi donatori che dovrebbe tenersi il mese prossimo al Cairo.

 

Resta a dir poco incerta la realizzazione di tutti gli obiettivi che la leadership di Hamas ha elencato durante i combattimenti, ribadendo che la resistenza armata sarebbe andata avanti fino a quando Israele non revocherà il blocco di Gaza, accetterà la costruzione di un porto marittimo e di un aeroporto nella Striscia e non libererà i detenuti politici palestinesi. Temi che saranno affrontati solo tra un mese, alla ripresa dei negoziati indiretti al Cairo. E’ forte il dubbio che tanti morti, oltre duemila, tanti feriti, almeno 11mila, e tante distruzioni non saranno sufficienti a imporre qualcosa di concreto a Israele. I leader di Hamas non sembrano preoccupati dalla prospettiva del fallimento, anzi. Nelle ultime ore sono riemersi dai loro rifugi Mahmud Zahar, l’ultimo ancora in vita dei fondatori storici del movimento islamico, e l’ex premier Ismail Haniyeh. Entrambi hanno arringato la folla per ribadire che il cessate il fuoco rappresenta una vittoria chiara «contro l’aggressione del nemico sionista». Per ora i leader di Hamas si godono l’appoggio popolare. Tra un mese si vedrà. Anche le persone più semplici però non tarderanno a capire se questa guerra devastante porterà la libertà promessa «fino all’ultimo respiro» oppure se sarà servita solo a far gettare le reti ai pescatori qualche miglia più al largo e a permettere ai contadini di coltivare qualche ettaro di terra in più vicino alle linee di confine con Israele.

 

Anche in casa israeliana, ovviamente, si parla di vittoria, ma nessuno sorride. O meglio sorridono quelli che sono vicini a Netanyahu, come Dan Margalit, stella del giornalismo locale, che su Yisrael HaYom, organo ufficioso del Likud, il partito del premier, ha avuto l’onore e l’onere di smentire i dubbi sollevati dagli altri giornali usciti con titoli come “Un triste pari” (Haaretz) e “Troppo poco” (Yediot Ahronot). «Malgrado tutto, è stata una vittoria», ha replicato Margalit, secondo il quale Israele ha accettato le condizioni che aveva già accoltonel 2012 e, dunque, Hamas non avrebbe successi veri da rivendicare di fronte alla sua gente. Margalit si è felicitato con la leadership israeliana che, a suo dire, ha saputo resistere alla tentazione di rioccupare l’intera Striscia di Gaza. Per l’analista Amir Rapaport invece «Hamas ha perduto ma Israele non ha vinto…Margalit dice delle cose vere – ci spiegava ieri – però delle forze armate così potenti e tecnologicamente avanzate come quelle israeliane dovevano saper infliggere colpi ancora più efficaci, in tempi più stretti». Ancora più “efficaci” di quelli subiti dal piccolo Ibrahim e dalla sua famiglia?